L’altro giorno sono stata a una festa di compleanno a sorpresa per un’amica a Ramallah. Sono stata invitata anche se una delle regole della casa è che non si possono pronunciare parole ebraiche né portare prodotti israeliani. Non parlare in ebraico non è un problema, l’importante è che mi si parli.
Proprio stamattina (il 27 marzo) un economista palestinese con cui stavo parlando mi ha chiesto di non usare il suo nome. Aveva già parlato con me in passato e i suoi amici lo avevano rimproverato. Alla fine ha accettato di parlare a condizione di non essere citato. Più tardi ho chiamato un altro economista dell’università di Bir Zeit. Con tono educato ma risoluto mi ha fatto presente che non può violare la politica dell’università che vieta ogni contatto con gli ebrei israeliani. Un’altra novità è la richiesta dell’associazione dei giornalisti palestinesi di impedire ai reporter israeliani di lavorare in Cisgiordania (per fare pressione su Israele, che impedisce ai giornalisti palestinesi di entrare nel paese). Questa decisione potrebbe crearmi grandi difficoltà, ma capisco che è necessaria.
Tornando alla festa, ho portato le noci, mentre la donna che l’ha organizzata ha portato le torte da una pasticceria del suo villaggio, che si trova all’interno dei confini israeliani. Ha sottolineato che sull’etichetta non c’era nemmeno una parola in ebraico. Ma alcune torte erano tipicamente ashkenazite, quindi legate alla tradizione della cucina ebraica dell’Europa orientale.
Traduzione di Andrea Sparacino
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