Strade chiuse in direzione Tel Aviv
Il 23 maggio avevo un appuntamento che aspettavo con impazienza: a Tel Aviv era in programma l’anteprima di Advocate, un documentario realizzato da una coppia di amici, Rachel Leah Jones e Philippe Bellaïche. Il film parla di Lea Tsemel, attivista di sinistra e amica di vecchia data. Tsemel è un’avvocata e da più di quarant’anni rappresenta nei tribunali militari di Israele i palestinesi più odiati dagli israeliani: quelli che hanno scelto di ucciderci per combattere l’occupazione. Sapevo che la proiezione sarebbe stata una rimpatriata tra vecchi compagni di classe. Sicuramente quello che resta della sinistra israeliana era stato invitato e speravo di prendere due piccioni con una fava: vedere il documentario e incontrare amici e amiche che non vedevo da tempo.
Il documentario doveva cominciare alle sette. Ho finito il mio articolo del venerdì e sono uscita dalla mia casa di Ramallah. Eravamo in pieno Ramadan, un mese particolare. Quasi tutti digiunano ma, più che al cibo e all’acqua, molti pensano solo alla sigaretta che fumeranno a fine giornata. Dovrebbe essere un mese dedicato all’introspezione spirituale, e invece per strada tutti si comportano come se avessero appena cominciato a disintossicarsi dalle droghe. Con mio sollievo alle quattro le strade erano libere. A Ramallah, come nel resto della Cisgiordania, gli impiegati degli uffici pubblici se n’erano già andati a casa.
A un certo punto ho sentito alla radio che la strada che avrei dovuto prendere per uscire dalla Cisgiordania e raggiungere Tel Aviv era stata chiusa. Il motivo erano alcuni incendi scoppiati in due insediamenti a ovest e a sud di Gerusalemme, che avevano danneggiato alcuni edifici e avevano costretto gli abitanti ad andarsene. Quella settimana, in effetti, è stata davvero torrida, con temperature fino a 43 gradi, una cosa che ha aumentato la mia stima per chi digiuna e non beve per quasi sedici ore. Ho deciso di prendere un’altra strada, più a sud. Erano già le cinque. Arrivata a un incrocio, ho trovato un posto di blocco dell’esercito e della polizia. Ho esitato, indecisa sul da farsi, ma dopo aver ascoltato i notiziari ho deciso di tornare a casa perché avevo paura che, nel migliore dei casi, sarei arrivata all’anteprima con un’ora di ritardo.
Il comandante ha detto che non potevo passare. Ho chiesto dov’era scritto e lui si è accorto che in effetti non c’era nessun cartello che vietava l’ingresso al villaggio
Ho scelto apposta il tragitto che unisce i villaggi di Nabi Saleh e Beitillu, a ovest di Ramallah. Due anni fa i coloni hanno cominciato a fare pressioni sull’esercito perché vietasse il transito dei palestinesi nel tratto meridionale di questa strada. Il pretesto è stato che un palestinese ha attaccato una famiglia di coloni in casa loro, uccidendo tre persone. I coloni, però, hanno costruito un insediamento illegale che si allarga ogni giorno di più. Vanno in strada a pregare e fanno di tutto per allontanare i palestinesi dalle loro terre, appropriandosi dell’acqua e dei boschi. In questo caso non è Tsemel a battersi per la riapertura della strada ma un altro avvocato israeliano.
Non ho visto passare auto palestinesi. Mi sono fermata per scattare una foto davanti a una postazione militare apparentemente vuota. Sono usciti due soldati e mi hanno urlato che era vietato. Purtroppo il telefono aveva la memoria piena, e quindi niente foto. Da lì ho imboccato la strada secondaria che porta al villaggio di Deir Nidham.
Sapevo che quello era il percorso obbligato per le auto palestinesi. Dopo aver capito che la strada era più lunga del previsto, sono tornata indietro. All’incrocio i due soldati si erano innervositi. Mi hanno fermata, dicendomi in malo modo che avevano denunciato l’ingresso di un’israeliana in un villaggio palestinese e che gli abitanti avrebbero potuto uccidermi. Io ho risposto che per prima cosa dovevano imparare l’educazione. Volevo proseguire, ma mi hanno detto che non si poteva. Dovevamo aspettare l’arrivo dei loro superiori e poi della polizia.
Ho aspettato. È arrivato il comandante della compagnia a bordo di una jeep, con altri due soldati. Anche lui mi ha spiegato che i palestinesi avrebbero potuto uccidermi, ma è stato educato. Ho riso e ho detto che erano stupidaggini. Gli ho spiegato che abito tra i palestinesi da prima che loro nascessero. Poi è arrivato il comandante del battaglione, anche lui su una jeep-, con altri due o tre soldati. Mi ha detto che ero sotto la sua responsabilità e non potevo passare. Ho chiesto dove fosse scritto e lui, guardando verso l’incrocio, ha visto che in effetti non c’era nessun cartello che vietava l’ingresso al villaggio. A quel punto è arrivata la telefonata di un poliziotto che s’informava su quale crimine avessi commesso. Per fortuna ha capito che non ne valeva la pena e non è venuto.
Agli automobilisti palestinesi arrivati nel frattempo è stato detto che non potevano proseguire sulla strada principale prima delle otto di sera. Loro hanno cercato di spiegare che così il tragitto si allungava, ma il comandante gentile non ha fatto concessioni. Ho chiesto perché, e lui ha risposto: “Per via degli incendi”. Evidentemente ogni scusa è buona.
(Traduzione di Federica Giardini)
Questo articolo è uscito sul numero 1310 di Internazionale. Compra questo numero|Abbonati