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Giulio Regeni e gli italiani in Egitto che denunciano il regime

Il Cairo, Egitto, il 13 febbraio 2016. (Christina Rizk, The New York Times/Contrasto)

Tra il deserto immobile che “incessantemente si consuma” e il mare perpetuo che “manifesta furiosamente il rinnovamento” si è formata la “mia prima visione della realtà”.

Sono le parole di Giuseppe Ungaretti, poeta italiano nato ad Alessandria. Le scrisse nell’Egitto degli anni trenta. Oggi nel paese è presente una comunità transnazionale sempre più numerosa, emersa all’ombra delle rivolte arabe, soprattutto dopo la rivoluzione egiziana. Questa comunità si colloca tra un’Europa vuota di ideologie e in preda all’austerità e un Medio Oriente politicamente spietato e radicale. Ma chi sono, e qual è la loro “visione della realtà”?

Gli italiani transitati in Egitto negli ultimi anni illustrano bene le caratteristiche di questa comunità che con le sue idee supera le nazionalità e i rapporti geopolitici.

L’orribile morte di Giulio Regeni, il dottorando italiano torturato e assassinato mentre si trovava in Egitto per fare ricerca sul sindacato, ci impone di osservare più da vicino i saperi prodotti da queste persone sullo sfondo di rapporti storici, politici e sociali spesso tesi da un capo all’altro del Mediterraneo.

“La ribellione era necessaria nell’Europa delle politiche di austerità, e l’atto di ribellione stava accadendo in Egitto. L’Egitto ci stava ispirando a sfidare la nostra realtà”, mi ha detto Lucia Sorbera, una storica e femminista italiana di Pisa che per molti anni ha fatto ricerca in Egitto.

Prima delle rivolte arabe nel 2011, l’interesse degli attivisti italiani in Medio Oriente si è concentrato soprattutto sulla lotta palestinese. Dopo le rivolte però, dopo che piazza Tahrir ha esportato una forma di protesta spettacolare, tanti intellettuali italiani hanno cominciato a preoccuparsi dei paesi a sud del Mediterraneo, soprattutto l’Egitto. Nel giro di poco tempo i nomi di rivoluzionari egiziani come Alaa Abd El Fattah e Mina Daniel hanno cominciato a circolare nelle università italiane e tra le comunità di attivisti.

Un popolo meno minaccioso

Un bel cambiamento rispetto all’anno precedente. Nel 2010 lo stato egiziano aveva fatto una strana apparizione nelle vicende italiane, quando l’ex primo ministro Silvio Berlusconi aveva fatto rilasciare la sua amante minorenne marocchina, Karima al Mahroug, detta Ruby, dicendo alla polizia che si trattava della nipote dell’allora presidente Hosni Mubarak.

Agli occhi di molti egiziani, per un motivo o per un altro, gli italiani sono europei con qualcosa di familiare

Dopo la scomparsa per sette giorni di Regeni e il ritrovamento del suo cadavere torturato a morte, i mezzi d’informazione filogovernativi egiziani faticano a giustificare l’omicidio. Ci sono state delle mezze accuse di spionaggio, ma non hanno attecchito, mentre dichiarazioni relativamente più dure sono state pronunciate solo in risposta alla risoluzione di condanna espressa dal Parlamento europeo nei confronti dell’Egitto. Questo forse perché Regeni era italiano, e non c’era a portata di mano nessuna storia di interventismo che lo stato e i suoi accoliti potessero sfruttare per sostenere un’accusa di spionaggio o propagandare le loro consuete teorie complottiste. Si può dire che se Regeni fosse stato statunitense o britannico sarebbe stato più facile appellarsi alla storia di interventismo degli Stati Uniti o del Regno Unito in Egitto come implicita giustificazione della sua morte. Nel caso dell’Italia, invece, questa versione non regge.

In termini di percezione dell’opinione pubblica, l’Italia non evoca alcuna minaccia immediata in Egitto. L’apprezzamento di ciò che è italiano è abbastanza frequente – dagli scrittori d’élite che lodano i rapporti storici con Roma, risalenti all’antichità classica, ai venditori ambulanti che cercano di appiopparti una losca cintura di pelle “da Itali!”, fino al mio idraulico che mi spaccia per italiana una pompa idraulica evidentemente “made in China”. L’Italia è spesso percepita come simbolo di classe, eleganza e conseguente credibilità. Agli occhi di molti egiziani, per un motivo o per un altro, gli italiani sono europei con qualcosa di familiare.

E gli italiani ben si adattano alla paralizzante nostalgia egiziana per la “modernità di un tempo, ormai perduta”, come dice la storica Lucie Ryzova. A questo si riferiscono le attuali élite di governo quando dicono che il presidente “renderà di nuovo grande l’Egitto”. Ed è una nostalgia condivisa dall’opinione pubblica (che si manifesta soprattutto sui social media con le foto in bianco e nero di un immaginario egiziano “cosmopolita”) e che prende la forma di una condanna nei confronti del regime per la sua incapacità di prendersi cura del patrimonio e della cultura.

La versione del perduto cosmopolitismo è rafforzata dalla magnifica decadenza di edifici che conservano l’impronta dei loro architetti italiani. O dalle conversazioni di egiziani più anziani provenienti da un centro urbano che ricordano con affetto almeno un amico italiano con cui sono cresciuti, prima di sparire nelle trincee delle politiche di nazionalizzazione promosse da Nasser. In breve, c’è un latente sentimento filoitaliano evocato dalla presenza degli italiani in un passato che si immagina più glorioso.

“Ho sempre pensato che essere un italiano in Egitto fosse per me un enorme vantaggio”, dice Alessandro Accorsi, un giornalista di origini marchigiane. “Mi ha aiutato nei miei rapporti con la polizia, con il governo, con la gente per strada. Gli egiziani adorano gli italiani, c’è un senso di fratellanza tra i due paesi, e secondo me, dal punto di vista della politica e del potere, noi siamo percepiti come ‘meno minacciosi’ di cittadini provenienti da altri paesi”.

Tuttavia lo stato egiziano ha manipolato discorsi del genere ricorrendo a dichiarazioni come “noi amiamo gli italiani” nel debole tentativo di sottrarsi a qualsiasi responsabilità. L’omicidio di Regeni ha fatto vacillare la relativa sicurezza di cui gli italiani hanno goduto a lungo in Egitto. Nessuno è intoccabile in uno stato di sicurezza insicuro.

La mistificazione di stato

Lucia Sorbera ammette che l’idea di questo rapporto particolare è abbastanza diffusa. “Condividiamo tante esperienze dal punto di vista della cultura popolare, una struttura patriarcale della società e la storia della produzione culturale. Pensiamo per esempio al cinema”. Tuttavia, avverte, soprattutto alla luce della morte di Regeni, questa è sostanzialmente una mistificazione, perché “Italia ed Egitto occupano due posizioni diverse nel sistema geopolitico mediterraneo e globale, e l’Italia non è certo uno stato di polizia in cui scompaiono centinaia di persone”.

L’italiana Iveco esporta in Egitto le camionette usate dalla polizia per reprimere le proteste

Altri italiani la vedono diversamente, e rilanciano affermazioni condivise anche da alcuni francesi e greci. Uno di loro mi ha detto: “Mentre il controllo neoliberista autoritario si afferma in Egitto attraverso la violenza e la tortura, in Italia si afferma attraverso la privazione dei diritti di base”. La violenza e la mancanza dello stato di diritto in Egitto non possono essere paragonati a quel che succede in Italia.
Tuttavia ci sono dei fattori che spingono gli italiani a trasferirsi, e a investire emotivamente, in Egitto.

La questione ha a che vedere in parte con l’esistenza di aziende italiane che operano senza scrupoli e hanno interessi poco chiari in Nordafrica, specialmente in Egitto. Basta ricordare l’inquietudine sollevata da un esponente di Confindustria diversi anni fa, quando paragonò il Mediterraneo meridionale all’equivalente della Cina per l’Italia, cioè al mercato principale nel quale trovare i partner più importanti.

Il quartiere Zamalek al Cairo, Egitto, il 5 marzo 2016.

Come ha scritto Omar Robert Hamilton, l’Italia è coinvolta nella violenza egiziana: dalla compagnia italiana Iveco, che esporta le camionette della polizia che hanno investito i manifestanti egiziani al produttore di armi Fiocchi, che ha fornito i proiettili che hanno ucciso tanti manifestanti pacifici. E questa è solo una piccola parte della storia delle aziende italiane che hanno investito nell’economia della violenza egiziana, lo stesso sistema che ha reso possibile la morte di Regeni.

Tuttavia, gli attivisti, i giornalisti e gli accademici italiani non rimangono in silenzio di fronte a questa situazione. Il loro appoggio alla lotta degli egiziani per la giustizia è la prosecuzione di una lotta politica contro la classe dirigente italiana.

“Per molti versi il presidente egiziano Al Sisi e il premier italiano Matteo Renzi non sono differenti”, afferma Azzurra Sarnataro, ricercatrice di Napoli che lavora sullo sviluppo delle comunità informali del Cairo. “Io mi oppongo ad Al Sisi come mi oppongo a Renzi e ai suoi provvedimenti politici ed economici”.

Una lotta condivisa

Conoscendo questa linea di pensiero – espressa di solito con parole diverse – diventa chiaro come italiani ed egiziani stiano in parte proiettando sull’Egitto le loro critiche al neoliberismo.

“L’Egitto è sempre stato (ed è ancora) un eccellente laboratorio per osservare l’interazione di fattori endogeni ed esogeni e il loro impatto sulla politica e sulla società… il dispiegamento di giochi di potere su una base ideologica e religiosa, e lo smascheramento di conflitti di interesse e del sistema di corruzione”, commenta Chiara Diana, autrice dello studio Rivoluzione e infanzia: la socializzazione politica dei bambini egiziani durante la rivoluzione del 25 gennaio 2011.

Alessandro Accorsi sente che la lotta egiziana è anche la sua lotta: “L’Egitto mi ha dato uno spazio di riflessione ideologica che non sono riuscito a trovare in Italia, proprio perché la rivoluzione è arrivata proprio quando l’attivismo italiano stava attraversando una crisi globale e regnava un’apatia generalizzata”.

Sorbera è più moderata: “Stare lontani da casa offre sempre uno spazio diverso – e direi più produttivo – per articolare la consapevolezza su se stessi e gli altri”.

D’altro canto, sviluppando l’opinione di Accorsi, Diana sostiene: “Penso che ci sia in Italia un appiattimento ideologico e politico che monopolizza l’attenzione dei cittadini su questioni come la sicurezza, il terrorismo, la protezione del territorio nazionale e la cultura. Questo impedisce di occuparsi dei problemi legati alle difficoltà quotidiane come la crisi economica o i tagli di bilancio nello stato sociale e nell’istruzione. C’è dunque un possibile rischio che quelle lotte fondamentali subiscano una battuta d’arresto, lasciando campo libero a discriminazione, paura, ripiegamento su se stessi e nazionalismo”.

Ed è in questo, continua, che l’Egitto serve per superare questa situazione di stallo. “In Egitto la lotta per i diritti umani, per la giustizia sociale e la libertà consentono a persone come me di continuare a credere nella dignità degli esseri umani e nella lotta per i loro diritti”.

Anche se non è insolito riscontrare simili opinioni in cittadini di altri paesi occidentali, gli italiani spiccano per un approccio più strettamente storico, sociale e geografico nei confronti del Mediterraneo e dell’Egitto, sintetizzato da quello che un professore italiano dell’università di Bologna ha detto ai suoi studenti durante una lezione: “Non si tratta di stabilire se la Turchia o Israele debbano entrare nell’Unione europea, ma se l’Italia debba entrare nella Lega araba”.

In Italia inoltre si assiste a una crescente ostilità nei confronti degli arabi e dei musulmani, legata soprattutto alla crisi dei profughi. Ma non sono gli intolleranti a dirigersi verso sud: chi parte segue un ideale, e crede in questa affinità.

“Siamo in molti a credere nel Mediterraneo, inteso come spazio di legami storici e culturali e come luogo privilegiato per esprimere il dissenso”, commenta Enrico De Angelis, ricercatore di comunicazione di Napoli.

“Avverto una vicinanza umana con gli egiziani riguardo ad alcune lotte fondamentali, come quella per la dignità della vita, per la giustizia sociale e la garanzia dei diritti umani fondamentali. Perché? Non so, forse perché vengo dall’Italia meridionale, dove le condizioni sociali sono a volte difficili, come in Egitto”, dice Diana. Sarnataro è più diretta: “In quanto meridionali, anche quando non siamo politicizzati condividiamo con l’Egitto la comprensione delle difficoltà economiche”.

La socievolezza di Regeni, il lavoro e gli ideali – tutti interni a un ambiente ‘filoitaliano’ – possono averlo aiutato finché l’illusione dell’immunità non è andata in pezzi

De Angelis aggiunge una distinzione in questo discorso: “Può essere una visione parziale, dovuta al fatto che possiamo accedere solo ad alcune parti della società egiziana. C’è una grande differenza tra Italia ed Egitto dal punto di vista economico. Forse si può dire che le lotte contro le politiche neoliberiste sono le stesse, ma a partire da posizioni completamente diverse”.

Tuttavia, dalle loro parole emerge una precisa identità di persone del sud Italia impegnate nella costruzione di un ponte verso il Nordafrica. Un’attività ancora più necessaria quando si pensi ai sentimenti antimeridionali e al razzismo antiarabo diffusi nel nord dell’Italia che mi sono stati chiariti da Fabrizio Eva, docente all’università di Venezia Ca’ Foscari, con una battuta degli anni sessanta: la Sicilia è l’unico paese arabo pacifico perché non ha ancora dichiarato guerra a Israele.

I martiri della rivoluzione egiziana

Con ciò non si vuole suggerire che Regeni sia il prodotto di tutti i fattori elencati finora. In realtà, lui aveva lasciato l’Italia a 17 anni, dieci anni prima di essere ucciso. È stato tuttavia inserito nella sfera pubblica egiziana come un “italiano”, e come tale era considerato all’interno della matrice politica, culturale, sociale e storica dell’Egitto. La socievolezza di Regeni, il lavoro e gli ideali – tutti interni a un ambiente “filoitaliano” – possono averlo aiutato finché l’illusione dell’immunità non è stata fatta a pezzi. Ci ha “resi tutti uguali nel terrore”, dichiara Francesca Biancani di Bologna, una studiosa di storia mediorientale specializzata nell’Egitto di epoca coloniale.

Tenuto conto della loro lunga e ravvicinata consuetudine con gli attivisti e i socialisti italiani nel corso degli anni, non c’era da sorprendersi se tra i rivoluzionari egiziani sia circolato l’hashtag “Giulio era uno di noi ed è morto come uno di noi”. Come Rachel Corrie è stata adottata dalla causa palestinese, Regeni potrebbe essere il primo non egiziano a essere inserito tra i martiri della rivoluzione egiziana. È stato il primo tentativo di sfidare l’equazione tra cittadinanza e patriottismo. È significativo che un esponente di una comunità transnazionale possa vantare anche una lealtà pari, se non superiore, al benessere pubblico egiziano.

Da studente, nel tumultuoso Egitto, l’identità politica di Regeni era riuscita a fiorire nei modi che gli erano stati negati in Italia

La morte di Regeni, come fa notare Biancani, “potrebbe anche rappresentare un promettente nuovo inizio per una lotta più ampia che connetta realmente le giovani generazioni con le stesse sensibilità su entrambe le sponde del Mediterraneo. Mentre a quanto vedo, un po’ dappertutto, in gradi diversi, coloro che esercitano il potere stanno ripiegando sull’uso di forme estremamente coercitive di dominio, in modo peraltro anacronistico”.

Il romanzo autobiografico della scrittrice italiana Fausta Cialente, Le quattro ragazze Wieselberger, è forse indicativo dei sentimenti che provano oggi gli italiani che hanno a cuore le sorti dell’Egitto. Nel 1922 Cialente aveva assistito a una parata fascista da Milano a Roma. Aveva risposto esprimendo il desiderio di tornare a casa, ad Alessandria, in un “Medio Oriente aperto, in cui per noi europei la libertà era piena e piacevole”. In seguito si sarebbe trasferita al Cairo per diffondere messaggi contro Mussolini e antifascisti attraverso la radio.

Il Cairo, Egitto, il 10 dicembre 2015.

Gli italiani che oggi sono preoccupati per l’Egitto possono forse intravedere dei punti in comune con il passato fascista dell’Italia nel mondo attuale del Cairo e di Alessandria. Le città che un tempo gli offrivano sicurezza politica e tolleranza oggi mostrano in modo sempre più evidente le tendenze fasciste raccontate dai loro nonni. La strada che collega le due città è diventata il cimitero transitorio per il cadavere di Regeni, scaricato proprio lungo l’autostrada tra il Cairo e Alessandria.

Mi pare che per Regeni non si sia mai trattato solo di scrivere una tesi. Il tumultuoso Egitto era il posto in cui, da studente, la sua identità politica era riuscita a fiorire nei modi creativi che gli erano stati negati in Italia. Era il luogo in cui la sua “visione della realtà” ha potuto arricchirsi e realizzarsi. Come molti giovani italiani che vedono la loro mobilità verso l’alto ostacolata dal nepotismo, Regeni ha potuto quantomeno sviluppare la sua idea di essere “un cittadino del mondo”, come scrive la giornalista italiana Paola Caridi nel suo blog InvisibleArabs.

Forse nessuno può esprimere la visione di Regeni in modo più profondo di sua madre, Paola Regeni: “Giulio era un cittadino italiano, un cittadino del mondo che avrebbe potuto aiutare molte persone in Egitto e in Medio Oriente. Aveva lungimiranza, per questo aveva imparato l’arabo ed era così interessato all’economia… [e] alla marginalizzazione… Giulio però non era andato in guerra. Non era un giornalista. Non era una spia. Era un ragazzo contemporaneo, del futuro, che stava studiando. Era andato a fare ricerca ed è morto sotto tortura”.

Una sirena d’allarme

Come reagire, sapendo che Regeni era venuto in Egitto pieno di idealismo e altruismo per capire i poveri e gli oppressi e ha finito per trovare tragicamente un destino a questi ultimi ben noto?

Non posso pensare a una frase migliore che racchiuda la monumentale crisi morale che l’Egitto sta affrontando di questa, pronunciata dalla madre di Regeni: “Sul suo volto si è riversato tutto il male del mondo”.

Paola Regeni ha parlato dall’altro lato del mare. Ha sollevato uno specchio davanti all’Egitto e ha detto: “Quello che sta succedendo adesso ci dovrebbe far riflettere tutti. Noi abbiamo perso Giulio, ma molti altri hanno fatto la sua stessa fine. Perciò potrà anche essere un ‘caso isolato’ rispetto alla storia italiana, ma non se guardiamo all’Egitto e ad altri paesi”.

La madre di Khaled Saeed – ucciso dalla polizia nel 2010 ad Alessandria a 28 anni la cui morte ha contribuito a far esplodere la rivoluzione egiziana – ha risposto con lo stesso tono. “Voglio ringraziarla per essersi schierata al nostro fianco, e per avere a cuore i casi di tortura in Egitto”, ha detto.

In un bar sulla Corniche di Alessandria un uomo mi ha chiesto come mai l’Italia stesse ancora facendo tanto rumore per Regeni. Un cliente abituale in un angolo si è alzato e ha urlato: “Perché è così che si fa quando un paese ha davvero a cuore i suoi cittadini”. È seguito un silenzio inquietante. Un ricordo suggestivo del motivo per cui, a una cinquantina di metri da quello stesso bar, Khaled Saeed era stato ucciso da due poliziotti più o meno sei anni fa, e di come la sua morte all’epoca fosse stata importante – importante al punto da innescare una rivoluzione. Nel quinto anniversario di quella stessa rivoluzione Regeni è sparito.

Nello stesso spirito antifascista di cui Cialente scriveva negli anni venti, Regeni era in un certo senso un testimone e una sirena d’allarme, un precursore dell’avvento di leader non tenuti a rispondere a nessuno e dell’erosione della libertà, dei diritti e della dignità umana. Per questo motivo, tra i tanti altri, la venuta di Regeni in Egitto non è stata vana, né lo è stata la sua fine.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è uscito sul giornale online Mada Masr.

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