*Un comizio di Fidesz, il partito del premier ungherese Viktor Orban, a Budapest, il 29 marzo 2014. (Reuters/Contrasto)
Nel numero del 28 marzo 2014 Internazionale ha pubblicato un interessante articolo di Anne Applebaum: la storia di Csanád Szegedi, uno dei fondatori del partito ultranazionalista e antisemita ungherese Jobbik, che a un certo punto scopre di essere ebreo, lascia la politica, si converte all’ebraismo e comincia a frequentare il movimento hassidico Chabad Lubavitch. Era un modo per parlare di Ungheria alla vigilia delle elezioni politiche di domenica 6 aprile. E per rimediare a una piccola mancanza: forse anche a causa di una lingua di difficilissima comprensibilità, l’Ungheria non è presente come vorremmo sulle pagine di Internazionale, oltre a essere in generale un po’ trascurata da tutti i mezzi d’informazione italiani. Nulla di sorprendente, considerato che la stessa sorte è comune più o meno a tutti gli altri paesi dell’Europa centrorientale.
Eppure, in teoria, tra l’Italia e l’Ungheria dovrebbe esistere una certa familiarità reciproca, dovuta a una serie di eventi storici e di percorsi culturali, legati all’occupazione austroungarica e alle lotte ottocentesche per l’indipendenza. Non a caso Sándor Petőfi, per esempio, ha dedicato versi all’Italia, Carducci l’ha ricordato in uno dei suoi saggi e il poeta ungherese alla fine dell’ottocento era tra letterati stranieri più tradotti in italiano. Poi ci sono la partecipazione di una legione italiana alla lotta antiasburgica in Ungheria e il contributo ungherese al risorgimento italiano, con i tremila soldati del Magyar Sereg Olaszhonban, la legione ungherese d’Italia e i garibaldini magiari.
Di Ungheria, però, oggi difficilmente si legge in Italia. Una parziale eccezione è stata l’ampia copertura che tutta la stampa europea, con quella tedesca in prima fila, ha dedicato ai primi anni dell’ultimo governo di Viktor Orbán, il dissidente liberale che nel 1989, a 26 anni, ebbe il coraggio di urlare ai sovietici di tornarsene a casa e che negli ultimi dieci anni, a capo di Fidesz, si è trasformato in un leader nazionalista, populista, antieuropeista e con più di qualche tratto autoritario. (Come questa metamorfosi sia potuta succedere è tutto da capire. Qualcuno mi ha parlato di motivi di ordine psicologico, risentimenti personali e desideri di rivalsa coltivati da un politico di campagna – Orbán è nato in una città di provincia, Székesfehérvár, ed è cresciuto in un paese di campagna – verso le élite di Budapest. Cercheremo di occuparcene presto). Tornando al suo governo, la stampa occidentale ha raccontato con dovizia di particolari, e con qualche semplificazione, una serie di provvedimenti molto controversi: per esempio la discutibile, e molto profonda, riforma della costituzione, approvata senza coinvolgere l’opposizione; la legge sui mezzi d’informazione, che è stata accusata di essere la pietra tombale sulla libertà di stampa in Ungheria; e la riforma della giustizia, criticata dagli osservatori internazionali e dall’Unione europea. Buona parte degli analisti occidentali ha considerato queste misure una seria minaccia alla democrazia.
Senza entrare nel merito dei singoli atti, è evidente che dal 2010, quando è diventato premier con una maggioranza parlamentare di oltre due terzi, Orbán non si è limitato a governare con polso fermo e spiccata volontà di cambiamento. È andato oltre, e in un certo senso ha rivoluzionato le regole del funzionamento democratico a tutto vantaggio della sua parte politica, accentuando il peso dell’esecutivo, piazzando uomini di fiducia in ogni posizione strategica (con uno zelo che è andato ben oltre le logiche dello spoils system) e facendo temere un graduale attenuarsi della separazione tra i poteri e la scomparsa del sistema dei checks and balances.
Oggi, però, a meno di una settimana da un voto che potrebbe consegnare a Orbán una maggioranza altrettanto solida di quella degli ultimi cinque anni, e che rischia di segnare una sconfitta epocale per l’opposizione democratica oltre che un ottimo successo per gli estremisti di Jobbik, l’attenzione verso quello che succede in Ungheria è ai minimi termini. Qui a ovest, ovviamente. Perché a Budapest del voto si parla parecchio. In termini che, altra singolare similitudine, ricordano parecchio il dibattito e lo scontro politico nell’Italia berlusconiana. Anche se con rapporti di forza più sbilanciati che in Italia (le forze di centrosinistra, che si presentano insieme sotto la sigla Unità, rischiano di non superare il 25 per cento), il paese è estremamente polarizzato: da una parte c’è chi appoggia il progetto di Orbán, dall’altra chi grida alla dittatura. Nel mezzo tra i due schieramenti, c’è un gran numero di cittadini sempre più distanti dalla politica, mentre alla loro destra sgomita un partito estremista, Jobbik, che di recente ha cominciato a guardare all’esperienza francese di Marine Le Pen per costruirsi un’immagine più rassicurante e moderata, e che può diventare la seconda forza del paese.
Anche gli argomenti del dibattito sono simili a quelli che per anni abbiamo sentito in Italia. András Stumpf, che scrive per il settimanale conservatore Heti Válasz, ammette che Orbán possa aver fatto degli errori, ma è convinto che si sia limitato a fare ciò che gli elettori gli avevano chiesto: “Nel 2010 ha ottenuto una maggioranza amplissima e ha governato secondo il mandato dei cittadini. Molte delle critiche occidentali sono dettate dalla partigianeria politica quando non esplicitamente dalla malafede”. In sintesi, Orbán fa quello che la sua forza parlamentare gli permette di fare, e se in qualche occasione ha un po’ forzato la mano non c’è da stupirsi: l’opposizione avrebbe fatto lo stesso. Anzi, quando tornerà al potere, farà lo stesso.
Dall’altra parte, quando incontro Imre Para-Kovács, giornalista dell’emittente di sinistra Klubradio (“anche mia nonna, che è super conservatrice, si ferma ad ascoltarlo sempre”, mi racconta un suo collega), dopo qualche giro di palinka di ciliegia mi sento raccontare una storia molto diversa: “La situazione è disastrosa. Senza via d’uscita. La democrazia è a rischio. Il paese non è maturo. Basta uno sconto di tre euro sulla bolletta del gas (provvedimento preso nelle ultime settimane da Orbán, che sembra avergli garantito un’impennata nei sondaggi) per convincere tutti a votare in blocco Fidesz”. La conclusione in qualche modo a noi italiani è familiare: “Venite a invaderci!”. Quando rispondo che forse sarebbe meglio chiedere ai britannici o agli svedesi (per delicatezza evito di citare i tedeschi…), Para-Kovács fa un gesto quasi stizzito: “Lo sapevo che avresti detto così. Il solito italiano”.
In ogni modo, l’idea che la situazione del paese non sia così rassicurante è confermata da altre chiacchierate con analisti e giornalisti e da impressioni raccolte in giro. Balázs Pócs, del quotidiano progressista Népszabadság, denuncia la totale disinformazione ottenuta grazie alla propaganda smaccata delle tv pubbliche, ovviamente controllate da uomini vicini a Fidesz. Pal Daniel Rényi, invece, scrive per il settimanale Magyar Narancs e – scopro per caso durante la nostra conversazione – è stato l’assistente di Applebaum nelle ricerche per l’articolo su Szegedi. Parla di forzature poco democratiche e di un clima politico soffocante. Ma poi ci tiene a sottolineare che denunciare la fine della libertà di stampa è un’esagerazione senza fondamento.
Militanti del partito di estrema destra Jobbik a Miskolc, il 15 febbraio 2014. (Bernadett Szabo, Reuters/Contrasto)
I problemi, in realtà, sono anche altri, e addirittura più allarmanti: un antisemitismo sempre più diffuso e cavalcato dagli estremisti di destra, e forti sentimenti antirom, comuni soprattutto nei piccoli centri e legati a conflitti e tensioni reali, ma - anche qui - sapientemente strumentalizzati dalla politica, Fidesz inclusa. Testimonianza di questa deriva ultranazionalista è la popolarità di cui in certi ambienti gode ancora la figura di Miklós Horthy. Il reggente (“Contrammiraglio senza marina di un paese senza mare”, dicevano gli ungheresi, come mi ha ricordato il collega Tibor Zizzi) guidò il paese in modo fortemente autoritario negli anni trenta e fu collaborazionista dei nazisti durante l’occupazione tedesca, contribuendo a spedire nei campi di sterminio centinaia di migliaia di ebrei. Ebbene, alla fine del 2013 una sua statua è stata inaugurata nella chiesa del pastore calvinista antisemita e negazionista Lóránt Hegedüs Jr, nel cuore di Budapest. Qualcuno ha protestato, il pianista András Schiff ha minacciato di non tornare a suonare nel suo paese finché a statua resterà al suo posto.
Ma per qualcun altro, Jobbik in testa, Horthy è un eroe, e per tanti si tratta di una questione privata, su cui non vale la pena di discutere. Come non è mai valso la pena di discutere seriamente - mi dice un altro analista politico, che vuole rimanere anomimo – sui traumi storici che sono alla base di parecchie altre criticità del paese: il trattato di Trianon, il trattamento delle minoranze ai tempi dell’impero austroungarico dopo il “compromesso” del 1867, le minoranze ungheresi nei paesi confinanti. Ma anche il 1956 e gli errori fatti nella transizione alla democrazia e al mercato. Questi temi, su cui né la storiografia né la politica né l’opinione pubblica hanno fatto una riflessione collettiva, alimentano il nazionalismo, un forte senso di vittimismo storico - giustificato o meno – e l’ostilità verso ogni forma di progetto supernazionale che minacci la sovranità ungherese: oggi soprattutto l’Unione europea.
A ben vedere è una situazione simile a quella vissuta dalla Polonia dopo l’89: un radicatissimo orgoglio nazionale, il culto della sovranità nazionale, un diffuso euroscetticismo, i richiami alla tradizione e all’identità, l’idea di essere in credito con la storia (anche qui, forse, con qualche ragione…), la paura degli ingombranti vicini tedesco e russo. Questi sentimenti avevano trovato espressione nella leadership dei gemelli Kaczynski, ma oggi, con il paese in salute e guidato da un governo liberale e non nazionalista, sembrano essere almeno in parte stemperati.
Succederà lo stesso all’Ungheria? La fase che il paese sta vivendo da qualche anno è solo un periodo di passaggio verso la formazione di una democrazia solida, non ossessionata dal culto dell’identità e della nazione? Sarebbe lecito pensarlo. La domanda, però, è con quale facilità potrà in futuro – non certo la prossima settimana: è troppo presto – verificarsi un nuovo cambio di indirizzo politico. Considerati i cambiamenti sostanziali fatti negli ultimi anni da Orbán, nella costituzione e in altri elementi cardine della vita pubblica, la possibilità che per molti anni ancora il paese non cambierà direzione e manterrà la stessa leadership è molto concreta.
Per capire quanto in profondo siano arrivate le riforme di Orbán, basta pensare alla nuova legge elettorale, che la professoressa Kim Lane Scheppele, di Princeton, ha analizzato in cinque lunghi articoli sul New York Times. Gerrymandering, norme che avvantaggiano la maggioranza in tema di pubblicità elettorale, regole fatte apposta per favorire la dispersione dei voti dell’opposizione, una singolare forma di recupero proporzionale che di fatto premia anche i partiti che hanno vinto nei collegi uninominali: tutte misure studiate per annichilire l’opposizione e garantire una solida maggioranza a Fidesz. Ma non sufficienti, però, a spiegare l’attuale assenza di una vera alternativa politica a Orbán, secondo la nostra fonte anonima: “Scheppele ha individuato dei punti che sono davvero critici nella nuova legge elettorale. Ma è arrivata a conclusioni esagerate. Il vero problema è che l’opposizione è debolissima. E questo non dipende da quello che ha fatto Orbán”. Dipende, invece, dagli errori degli anni novanta, dall’incapacità di trovare una figura carismatica e capace di comunicare con gli elettori (questo, più o meno a malincuore, lo ammettono tutti: Orbán è un grande comunicatore, i socialisti Gyurcsány e Mesterházy no), dagli scandali di corruzione che continuano a colpire il Partito socialista, e dall’attuale incompetenza dei leader di tutto il centrosinistra.
Un’alternativa, a sentire voci anche diverse, di sinistra come di centrodestra, ci sarebbe: il partito la Politica può essere diversa (Lmp), verde, progressista, europeista, liberale e poco compromesso con il passato. Il punto è che i sondaggi lo danno appena al di sotto della soglia di sbarramento, che è del 5 per cento. “Guarda”, mi dice Para-Kovács quando gli chiedo per chi voterà domenica, “aspetterò di capire come sta andando l’Lmp. Se sarà intorno al 4,8/4,9 per cento voterò per loro senza esitazione”. Giusto. Ma quanti deputati riusciranno a eleggere? “Mah, non più di una decina”. Su 199. A Fidesz, stando ai sondaggi, potrebbero andarne tra 100 e 140.
Andrea Pipino è l’editor di Europa di Internazionale.
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