Il 26 ottobre migliaia di persone sono scese in piazza a Budapest per protestare contro il progetto del governo di tassare l’uso di internet. Due giorni dopo altri cortei, molto più numerosi: nella capitale, in altre città del paese, davanti ad alcune ambasciate ungheresi in Europa. Anche se nel frattempo il primo ministro Viktor Orbán aveva fatto una parziale marcia indietro, mettendo un limite mensile di 2 euro al prelievo per gli utenti privati.
La mobilitazione, però, non sembra fermarsi. Il primo paragone che viene in mente è quello con la Turchia: come Erdoğan, Orbán è un leader nazionalista e conservatore che alle urne non perde un colpo. Ma parla un’altra lingua rispetto a quella dei ceti urbani più giovani e dinamici.
A Istanbul il movimento di Gezi park era cominciato con una piccola protesta in difesa di un fazzoletto di verde e di qualche albero. In Ungheria la scintilla è stata un balzello di 150 fiorini per ogni gigabyte scaricato. Certo, è difficile che la piazza degli Eroi di Budapest diventi un’altra Taksim. Ma le proteste di questi giorni possono segnare una svolta nei rapporti tra Orbán e quella parte del paese che non lo ama e che non sembra aver alternative politiche credibili a cui guardare.
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