Ci sono momenti in cui un editorialista si concede un po’ di speranza. Dopo la débâcle degli anni di Bush, con l’elezione di Barack Obama sembrava che per i rapporti tra il mondo musulmano e gli Stati Uniti fosse davvero possibile un nuovo inizio. Il discorso di Obama al Cairo nel giugno 2009, in cui chiedeva di metter fine agli “anni della diffidenza” tra musulmani e americani, era pieno di promesse ed è stato seguito due anni dopo dalla primavera araba. Finalmente gli Stati Uniti potevano aiutare le democrazie nascenti in Medio Oriente. Gli stretti legami di Obama con la comunità ebraica americana e la sua simpatia per i palestinesi facevano di lui il presidente perfetto per questo periodo. E, a differenza dei predecessori, non aveva affrontato questo tema nella fase finale del secondo mandato, ma l’aveva preso di petto subito.
Il suo discorso alle Nazioni Unite invece è stato la fine di tutte queste speranze. La decisione dell’Onu di riconoscere lo stato palestinese non è del tutto condivisibile, e Obama ha fatto bene a dirlo. È vero che non è possibile raggiungere una vera pace senza negoziati diretti tra
israeliani e palestinesi. Il problema è che, finché Benjamin Netanyahu sarà primo ministro di Israele, la costruzione degli insediamenti continuerà, e finché continuerà i negoziati arabo-israeliani non andranno da nessuna parte. E così il presidente palestinese Abu Mazen ha pensato di non avere altra scelta che appellarsi all’organizzazione che ha sancito la divisione tra Israele e la Palestina qualche decennio fa.
I due politici repubblicani statunitensi Sarah Palin e Mike Huckabee chiedono entrambi un’occupazione più aggressiva della Cisgiordania. Ma nello scontro tra il presidente degli Stati Uniti e il primo ministro israeliano, è stato Netanyahu a vincere tutte le battaglie, anche se l’opinione pubblica mondiale è quasi tutta dalla parte di Obama. Come mai? La risposta purtroppo non ha nulla a che vedere con la Palestina, ma con la politica interna di Israele e degli Stati Uniti. Sempre più fondamentalista e dominato dalla lobby dei coloni e dai nuovi immigrati provenienti dai paesi ex sovietici, oggi Israele non è più la democrazia laica e di sinistra che era all’inizio. Essersi ritirati dal Libano e da Gaza solo per essere attaccati con i razzi ha fatto spostare gli israeliani su posizioni più intransigenti.
Il ministro degli esteri Avigdor Lieberman sarebbe considerato un neofascista in qualsiasi altro paese occidentale. E qualsiasi compromesso sugli insediamenti farebbe cadere il governo. La prospettiva di una soluzione a due stati è stata messa da parte anche dalla politica statunitense. I donatori e gli elettori ebrei del Partito democratico hanno minacciato di andarsene se Obama avesse continuato a fare pressioni su Israele. La maggior parte di loro appoggia la posizione di Obama sulla soluzione a due stati, ma continua a considerare antisemita qualsiasi attacco allo stato ebraico. Il loro silenzio sulla colonizzazione della Cisgiordania è un ulteriore segno del fatto che in buona parte della politica americana i problemi identitari prevalgono su qualsiasi principio. Le elezioni suppletive a New York sono state dominate dagli ebrei ortodossi che hanno votato repubblicano anche per protestare contro ogni possibile chiarimento tra Washington e Israele. E il congresso degli Stati Uniti è schierato compatto con il governo Netanyahu. Quest’estate circa un terzo dei parlamentari ha fatto come unico viaggio all’estero quello in Israele. Nessun presidente può nuotare contro una corrente simile.
Ciò non toglie che la lobby filoisraeliana è sempre più marginale nei rapporti dell’America con lo stato ebraico. Ha molti soldi e un certo peso tra i democratici, ma ha pochi elettori. Quello che conta è il fatto che la nuova destra cristiana ha deciso di coinvolgere Israele nella sua alleanza giudaico-cristiana contro l’islam. Sarah Palin e Mike Huckabee hanno entrambi sostenuto apertamente i nuovi insediamenti in Cisgiordania perché credono che un ulteriore afflusso di ebrei in Terra santa anticiperebbe “il secondo avvento”, che nessun cristiano dovrebbe impedire. Durante una recente conferenza stampa, il favorito repubblicano alle presidenziali Rick Perry, si è rivolto con orgoglio ai leader dei coloni dicendo: “Anch’io, come cristiano, ho la chiara direttiva di sostenere Israele, quindi per me schierarmi è abbastanza facile”. Vi prego di notare che la religione rende “facile” la geopolitica: la “direttiva” di sostenere sempre qualsiasi governo israeliano viene dal cielo.
Questa è la manovra a tenaglia che ha ucciso la promessa di Obama. Con i democratici che hanno il terrore di perdere i loro donatori e i repubblicani che sostituiscono la teologia alla sicurezza nazionale, siamo fortunati che Obama abbia avuto il coraggio o l’ingenuità di affrontare la questione. Ormai la sua unica possibilità è un secondo mandato e un governo israeliano diverso. A quel punto potremmo essere nel bel mezzo di un’altra intifada, le nuove democrazie arabe potrebbero aver concluso accordi di pace con Israele, e gli Stati Uniti potrebbero aver perso alcuni alleati cruciali nella regione, oltre alla loro credibilità agli occhi del mondo.
*Traduzione di Bruna Tortorella.
Internazionale, numero 917, 30 settembre 2011*
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