Me lo sentivo. Gli avevo scritto un’e-mail la settimana prima perché volevo mandargli dei cd. Non sapevo cosa fare. Non ero così stupido da dirgli in faccia che pregavo per lui, ma era così. Quindi gli ho chiesto dove fosse, gli ho detto che pensavo a lui e gli ho chiesto se potevo mandargli un regalo. Abitavamo vicino e il suo appartamento di Washington era sempre un rifugio, anche per uno come me che non regge neanche un bicchiere di vino. La sua email di risposta mi è sembrata svuotata di ogni hitchensità: “Purtroppo sono ancora in Texas. Grazie del pensiero(i)”. Però c’era quell’ultima parola, con i suoi molteplici significati.

Quando è morto, Christopher Hitchens era vivo, come aveva voluto. “Voglio vivere la mia morte in modo attivo e non subirla”, aveva scritto. “Voglio essere lì a guardarla in faccia, e quando viene a prendermi, deve trovarmi occupato a far qualcosa”. Prima della sua morte, però, non avrei potuto scrivere niente. Perché la vita senza Hitch modifica il rumore del mondo.

Ci eravamo conosciuti ad Harvard un quarto di secolo fa, quando Christopher era ancora molto di sinistra e io ero un thatcheriano troppo dogmatico – così pensavo – perché gli venisse voglia di fare amicizia con me. Era il contrario: per Hitch il fattore umano prevaleva sempre su quello ideologico, nel bene come nel male. Mi invitò a pranzo. L’ultima cosa che volevo era ritrovarmi a Cambridge, in Massachusetts, a fare una litigata politica estemporanea sul pesce azzurro. Forse perché temevo di trovarmi al cospetto di un uomo la cui abilità polemica e le cui letture sterminate (leggeva più velocemente di chiunque altro io conosca) erano in grado di distruggermi. Lui aveva quindici anni più di me ed era già affermato, mentre io ero appena laureato. Ci sono voluti vent’anni prima che litigassimo furiosamente, in pubblico (su Obama, agli inizi della campagna presidenziale del 2008) e in privato, sulla sua insolita reticenza sui crimini di guerra dell’amministrazione Bush in Iraq, un conflitto che all’inizio avevamo appoggiato entrambi, e sulla sua convinzione che fosse giusta la guerra preventiva contro l’Iran.

Hitch diceva un sacco di cattiverie sui suoi amici, oltre che sui nemici. A me però parve un complimento quando, dopo le mie dimissioni da New Republic, scrisse un articolo liquidatorio su di me. L’aveva fatto con molti suoi amici intimi. Per lui un articolo in cui criticava la scrittura e la vita pubblica degli amici non era tradire l’amicizia: era una schermaglia parlamentare a cui far seguire mezza bottiglia di Johnnie Walker.

Tanta caparbia indipendenza intellettuale si estendeva a tutte le “piccole ortodossie schifose” che cercavano di avere la meglio su di lui. Ed è stata la sua ribellione di fronte a ogni facile consenso a fargli dire alcune delle sue più fantastiche bestemmie. Hitch non ha solo insultato madre Teresa e la principessa Diana con parole brutali e rivelatrici: l’ha anche fatto in pubblico, dagli schermi di tv nazionali, subito dopo la loro morte. E aveva raccolto prima tutti i dati a sostegno delle sue tesi, con la stessa precisione con cui aveva costruito le sue accuse contro il criminale di guerra Henry Kissinger.

Spesso irritava anche chi altrimenti avrebbe potuto sostenerlo. Ma a lui non importava nulla. Per me il suo momento più alto fu quando su Fox News – la tv propagandistica dell’estrema destra statunitense – si mise a inveire contro il predicatore evangelico integralista Jerry Falwell, definendolo un ciarlatano e un cinico impegnato a fregare quattrini e a odiare persone che neanche conosceva. Tutto questo il giorno dopo la morte di Falwell. Ma intimidire Hitch era impossibile. Gelò l’intervistatore e alla fine, con un gesto di ribellione contro tutta quella farsa, sparò un’ultima battuta trascinante: “Se fate un clistere a Falwell, per seppellirlo basterà una scatola di fiammiferi!”.

Era troppo? Per molti, sì. Però abbiamo tutti bisogno di qualcuno capace di dire cose del genere in pubblico. La libertà lo esige. Io sono cattolico convinto da sempre e, malgrado l’estraneità che provo oggi per le istituzioni religiose, non posso smettere di credere. Tutto questo Hitch lo sapeva e mi sfotteva per il mio cattolicesimo con la stessa malizia con cui mi prendeva in giro per le mie preferenze sessuali. Una volta passammo una nottata a discutere come due studentelli dei massimi sistemi, della mia fede e della sua avversione alla fede. Be’, io sono convinto che Hitch sia stato una medicina morale per il cristianesimo di oggi. Ho preso in mano con ansia il suo libro su Dio, ma poi mi sono ritrovato d’accordo con quasi tutto. È vero, ridicolizzare le chiese è facile. Però c’era qualcosa di irresistibile ed esaltante in quel suo brandire un kalashnikov retorico. Occorre una vera indipendenza di spirito per tenere il punto fregandosene del consenso sociale. Ciò che quel libro non ha fatto – e non poteva fare – è intaccare la mia fede. Hitch prendeva di mira le follie, le menzogne e le crudeltà degli uomini che insultano la fede strumentalizzandola. E io, da cristiano, gliene sono grato.

*Traduzione di Marina Astrologo.

Internazionale, numero 929, 23 dicembre 2011*

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it