A Idomeni una crisi umanitaria è affrontata con le ruspe
Rispondere alle crisi umanitarie con polizia, ruspe, manganelli e gas lacrimogeni sembra essere diventata la norma in Europa. Sarebbero dovute arrivare delegazioni di avvocati, medici, psicologi, operatori umanitari per ricollocare i profughi che da mesi vivevano accampati al confine tra Grecia e Macedonia, invece hanno mandato migliaia di poliziotti in tenuta antisommossa, all’alba, per sgomberare le famiglie che erano in attesa di riprendere il loro viaggio o di trovare una sistemazione. Dove fallisce la politica, arriva l’ordine pubblico.
I giornalisti e i volontari non sono stati fatti entrare nel campo: la violenza delle politiche disumane dell’Unione europea non deve avere testimoni. Mentre scorrevano le immagini di uomini, donne e bambini che lasciavano il campo nei pullman, le facce spaesate e stanche dietro ai finestrini, mi è tornata in mente una frase che mi ha detto Christine, una pastora protestante tedesca, qualche settimana fa a Lesbo: “È evidente che l’Europa vuole nascondere alla nostra vista i corpi e le sofferenze di questi uomini e di queste donne”. In effetti è evidente.
Le politiche dei governi europei seguono un doppio binario: da una parte vogliono scoraggiare le persone ancora intenzionate a raggiungere l’Europa. Se riuscirete ad arrivare, vi renderemo la vita impossibile, sembrano dire questi gesti di violenza plateale. D’altra parte i governi vogliono parlare ai loro elettori, stremati dalla crisi economica e sedotti dai nazionalismi e dall’estrema destra.
Le autorità usano i migranti come capro espiatorio e come diversivo per rispondere a chi scende in piazza in Grecia, in Francia e in Belgio contro nuove dolorose misure di austerità, jobs act, tasse, licenziamenti facili, tagli ai servizi e alla spesa pubblica.
Perché proprio ora?
Mentre i ministri delle finanze della zona euro sono riuniti a Bruxelles per decidere se alleggerire il debito greco e concedere una nuova parte di aiuti economici ad Atene, il governo di sinistra di Alexis Tsipras manda le ruspe a Idomeni e pensa in questo modo di cancellare un luogo che è diventato il simbolo dell’inadeguatezza delle politiche europee dell’accoglienza.
Perché il campo profughi più grande della Grecia è stato sgomberato? Per trovare una sistemazione stabile e duratura alle diecimila persone che ci abitavano? Per permettere ai profughi di raggiungere le loro famiglie in Germania, in Svezia o nei Paesi Bassi? Per concedergli la possibilità di chiedere asilo e di accedere ai programmi di ricollocamento?
Il campo profughi più grande della Grecia è stato sgomberato per rimuovere dai nostri discorsi e dal nostro sguardo l’esperienza di chi negli ultimi mesi ha intrapreso il viaggio verso l’Europa, con ostinazione. E con questo semplice e coraggioso progetto ha mandato completamente in tilt la presunta “unione” degli stati europei.
A Idomeni hanno vissuto in condizioni precarie 12mila persone da quando la Macedonia ha deciso di chiudere la frontiera con la Grecia, porta di accesso alla cosiddetta rotta balcanica, percorsa dai migranti per arrivare in Europa occidentale. Quasi la metà della popolazione del campo era costituita da bambini. Siriani, iracheni, afgani in fuga dalla guerra.
I volontari sono stati fatti uscire dal campo a mezzanotte di martedì. “Martedì è stato un giorno di lacrime, perché le voci su uno sgombero imminente erano sempre più concrete”, racconta Colleen Sinsky, una volontaria statunitense indipendente che ha lavorato in passato per l’organizzazione norvegese A drop in the Ocean. “All’una di notte sono uscito dalla mia tenda e ho trovato i bomberos spagnoli che stavano smontando le loro cose perché dei poliziotti in borghese gli avevano chiesto di lasciare il campo”, aggiunge Tommaso Gandini di Over the fortress. “Un poliziotto ha chiesto anche a me di prendere le mie cose e andarmene, perché altrimenti la mia presenza sarebbe stata considerata illegale”.
“I profughi sono stati fatti salire sui pullman e sono stati portati in campi gestiti dall’esercito nel nord della Grecia”, racconta Colleen Sinsky. I volontari non sanno dove sono state trasferite le duemila persone che mercoledì hanno lasciato Idomeni a bordo di 42 pullman. Inoltre nei campi gestiti dall’esercito in Grecia ci sono posti solo per cinquemila persone e tutti si chiedono dove finiranno e in che condizioni vivranno i profughi di Idomeni.
“Hanno cominciato a sgomberare molto lentamente la prima parte del campo, alla ferrovia non sono ancora arrivati”, continua Tommaso. “Ma non sappiamo dove li stanno portando, sappiamo che hanno costruito un nuovo campo, vicino a Salonicco e che li stanno dividendo per nazionalità e per lingua: i curdosiriani, dai siriani e dagli iracheni”. Di fronte a questa ennesima prova molti dei profughi hanno chiesto di essere rimandati nel loro paese.
“Salah e la sua famiglia per esempio hanno chiesto di tornare in Iraq di fronte alla notizia dello sgombero imminente e sono stati già rimpatriati con un volo da Salonicco”, racconta Tommaso.
“Nemmeno ai medici è permesso entrare e non avviene la distribuzione del cibo. A breve sarà impossibile vivere qui e le persone lo sanno”, racconta Tommaso Gandini. I volontari hanno improvvisato una manifestazione lungo la strada, per chiedere di avere accesso al campo.
“Quando ho lasciato il campo l’ultima volta e ho percorso quella strada asfaltata, ho salutato per l’ultima volta le signore delle tende all’ingresso del campo e mi sono lasciata alle spalle i grandi alberi, sono scoppiata a piangere. Le persone erano spaventate, non sapevano dove le avrebbero portare”, racconta Colleen. “Al campo il lavoro non è stato tanto distribuire i pasti, ma portare umanità e ascolto a queste persone stremate”.
“Me ne tornerò in Siria, un posto dove si muore velocemente. È meglio morire velocemente, piuttosto che morire lentamente qui. Ho sperato di diventare adulto in Europa, ma ora sono stanco”, dice via sms un ragazzo siriano, mentre le ruspe distruggono una tenda da campeggio che è stata casa sua per qualche mese.