Le metafore sono un modo di pensare prima ancora che un modo di parlare. Ogni volta che abbiamo a che fare con un concetto astratto ci viene naturale ricorrere a una metafora. Questo e non solo, passando da Elvis a Shakespeare, racconta lo scrittore James Geary in una Ted conference che merita di essere guardata.

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Se volete leggere qualcos’altro sulle metafore tra sport, politica, divulgazione scientifica, e sui rischi connessi con l’impiegare metafore fuorvianti, cercate

in questa pagina di Nuovoeutile.

Insomma, una metafora può (metaforicamente) essere un un cannocchiale per guardare più lontano. Un faro che illumina una realtà oscura. Un grimaldello che apre porte serrate. La lama che squarcia il velo di un pregiudizio. Ma una metafora riduttiva o fuorviante può portare verso una strada senza uscita. È il masso che precipita su un’idea e crash!, la spiaccica.

Questa lunga premessa ha un obiettivo. Sto per sottoporvi una questione che riguarda una metafora e mi auguro che non la liquiderete come un’oziosa pinzillacchera linguistica senza pensarci su almeno un paio di secondi.

Ecco. Ho il sospetto che per maneggiare meglio, e anche per rendere tangibile e attraente il concetto astratto di beni culturali, evocando valore e desiderabilità si sia, fino a oggi, fatto ricorso a una serie di metafore che non sono sbagliate, ma probabilmente sono riduttive. Pensateci: si parla di giacimenti culturali. Si dice che i beni culturali sono il nostro petrolio. Un tesoro da valorizzare. Un patrimonio.

È tutta roba preziosa sì, ma inanimata (fin troppo ovvio ricordare che ciò che è inanimato non ha, appunto, anima). È roba che se ne sta lì, in attesa che qualcuno ne faccia qualcosa, e che restandosene lì tende fatalmente ad appannarsi, a impolverarsi e a puzzare di cantina. Tra l’altro, la metafora del giacimento, o del tesoro, evoca un immaginario avventuroso, ma anche avido ed egoista: ci sono dentro Gollum, Paperone, Aladino, il petroliere cinematografico Daniel Painview, il pirata Barbanera…

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Credo che potrebbe valer la pena di abbandonare la visione inorganica per una organica, molto più ampia, complessa, generosa e, propriamente, fertile.

Provate a immaginare la cultura come un grande, vitale ecosistema abitato e condiviso da mille specie diverse di idee e di attività. In cui da sempre artisti e artigiani e scienziati e pensatori interagiscono animati dall’energia millenaria e inesauribile della creatività umana, e producono guidati dallo spirito del tempo.

Immaginate un ecosistema in cui ogni espressione culturale è connessa con le altre e coevolve, come in effetti è sempre successo e succede: cinema e letteratura, pittura e design, moda e fotografia, musica e matematica… quanti fili legano una disciplina all’altra? Quante traiettorie uniscono passato, presente e futuro? E quante idee o invenzioni affondano le radici in altre idee o invenzioni, o si esprimono grazie ad altre idee o invenzioni? Se volete un riferimento cinematografico pop: scordatevi Gollum e i pirati per entrare dritti dritti nella tecnomagia di Avatar.

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Come tutte le metafore, anche quella dell’ecosistema culturale si porta dietro una serie di conseguenze e implicazioni: la necessità, per esempio, di tenere sotto severo controllo parassiti e predatori. Di evitare frane (metaforiche e reali). Di seminare per poter poi raccogliere. Di rispettare tutte le specie – le attività culturali e creative – che costituiscono l’ecosistema senza far gerarchie, e valorizzando la diversità.

Ma l’implicazione più interessante è, forse, un’altra: un “bene” ci appartiene, ma siamo noi che apparteniamo a un ecosistema. È un cambio di prospettiva sostanziale: siamo noi ad appartenere alla nostra cultura, e anche ai nostri musei, alle biblioteche, ai siti archeologici, ai monumenti e alle opere d’arte, così come apparteniamo al nostro linguaggio e alla nostra storia, e come una specie appartiene al suo territorio. E, se quello va in rovina, si disorienta, stenta, e alla fin fine si estingue.

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