In quest’ultimo periodo, in due casi diversi, mi sono trovata a ragionare sul modo in cui usiamo e percepiamo le parole italiane e le inglesi. Vi racconto cosa è successo e cosa mi sembra di aver capito.
Il primo caso
Antefatto. A partire dall’esilarante aneddoto raccontato da un lettore, affronto su Nuovoeutile il tema dell’itanglese. L’articolo suscita un discreto dibattito e decido di tagliare la testa al toro (a proposito: questo modo di dire non è traducibile e ha una storia curiosa). Così, poco dopo pubblico una lista di un centinaio di parole inglesi comunemente usate che, mi sembra, avrebbero efficaci corrispondenti in italiano.
Per chiarire lo spirito: ho già sostenuto che conoscere le lingue straniere è meraviglioso. Non metto in discussione i prestiti di necessità come mouse, tram, toast, e non sto certo suggerendo di dire, invece, selezionatore video, tramvai o tosto (be’, c’è anche chi lo propone).
Però, santa polenta, è una questione di misura: una parola inglese all’interno di un discorso in buon italiano non fa male a nessuno, ma dire “facciamo asap un meeting per il fine tuning del client service” non è più comodo o preciso (e suona più pretenzioso o strano) che dire “facciamo al più presto una riunione per mettere a punto il servizio clienti”. Si risparmia tempo con l’itanglese? Neanche tanto: una prova spannometrica col cronometro mi dice che sono 4,17 secondi (il meeting) contro 4,49 secondi (la riunione). Poco più di tre decimi di secondo risparmiati.
La lista gira in rete e raccoglie, di pagina in pagina, oltre quattrocento commenti e suggerimenti: una revisione collettiva a partire dalla quale riscrivo tutto quanto, togliendo corrispondenze controverse o modificandole e aggiungendo soluzioni che sembrano convincenti.
Arrivo a trecento termini inglesi che potrebbero, magari, risultare sostituibili con l’italiano. Se volete vederli, li trovate qui. Ce ne sarebbero altri ma, per cominciare, trecento opportunità in più di togliere i piedi dalla marmellata dell’itanglese non sono niente male.
Cosa mi sembra di aver capito.
1) Il tema dell’itanglese è molto sentito, e non solo da uno sparuto gruppetto di grammar nazi.
2) Tra le persone più infastidite ce ne sono molte che conoscono l’inglese bene o che sono di madrelingua inglese o che vivono all’estero.
3) Se non si vuol essere spellati vivi, mai azzardarsi a proporre corrispondenze tra termini inglesi e italiani che riguardano l’informatica, perfino se il significato proprio del termine inglese in uso è impreciso o obsoleto tanto quanto quello del possibile termine italiano (si discute, per esempio, perfino su hard disk=disco rigido). Si salvano solo web= rete, ed enter=invio.
4) Tra fashion, outfit, trend, must, mood, look, oversize e molti altri termini e alla faccia del made in Italy (sì, lo so, l’ho scritto in inglese), la moda si crogiola nell’itanglese quasi più del marketing.
5) Se uno fa mente locale, può perfino rendersi conto che dire sostegno, approvazione invece di endorsement, o divario invece che gap, dà una certa soddisfazione.
6) Ho tuttavia la sensazione che i termini inglesi abbiano un vantaggio perché soggettivamente sono percepiti come più precisi e più evocativi, e perché si portano dietro in automatico una connotazione moderna e cosmopolita, quindi positiva. E infatti.
Il secondo caso
Intanto, un cliente che lavora nell’ambito dei servizi mi chiede di aiutarlo a mettere ordine nel sistema dei nomi che definiscono le diverse attività offerte al pubblico. Negli anni, e aggiungendo attività ad attività, tutto si è ingarbugliato: diversi nomi sono in inglese, qualcuno è in italiano.
In qualche caso due attività diverse fanno capo allo stesso nome, in qualche altro si è trascurato di nominare le nuove offerte. E poi, al telefono, le persone fanno fatica con l’inglese, storpiano e si confondono. Fantastico, penso: finalmente passiamo all’italiano. Affronto baldanzosa l’impresa. Mi è già capitato diverse volte di lavorare sui nomi e tradurre tutto con un po’ di grazia, precisione e buonsenso non dovrebbe risultare difficile.
E invece no: mi accorgo che, se mi limito a tradurre, i nomi si svuotano. Suonano poco attraenti, generici e burocratici. Giusto per esempio: provate a tradurre Open mind lab con Laboratorio mente aperta (Laboratorio delle menti aperte? Laboratorio per l’apertura mentale?). E moltiplicate l’effetto per una decina di volte. Una schifezza.
Non è solo una questione di brevità: una definizione inglese usata in un discorso in italiano appare più compatta e indiscutibile (oltre che più moderna) proprio perché è in inglese. E un gruppo di nomi inglesi ha (a prescindere da ciò che i nomi significano o suggeriscono, e perfino se vogliono dir poco) un’omogeneità percettiva che manca del tutto ai corrispondenti italiani letterali. Per uscire dai pasticci ci metto tre settimane, provando e riprovando.
Cosa mi sembra di aver capito.
1) Se coi testi letterari tradurre è un po’ tradire, con le singole definizioni o con i nomi nuovi bisogna, a volte, avere il coraggio di lavorare in maniera radicale per ottenere risultati accettabili.
2) Nel passaggio dall’inglese all’italiano resta comunque la sensazione di aver perso qualcosa: si capisce tutto, e quel tutto non sembra mai abbastanza.
3) Per compensare il senso di perdita, occorre che il nome o la parola nuova abbiano un di più di consistenza e di precisione.
4) L’inglese, d’altra parte, è una facile, magnifica scorciatoia per nominare qualsiasi cosa senza pagare troppi dazi al senso.
5) Comunque, nel passaggio dall’inglese all’italiano è fatale suscitare, all’inizio, un po’ di sconcerto e spaesamento. È quanto è capitato a me, quando ho presentato i risultati del mio lavoro. Il secondo passo è stato “ah, però, a pensarci bene potrebbe funzionare”. Vedremo come va a finire.
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