Il talento naturale sembra a tutti sommamente ammirevole e seducente, tanto da distorcere la percezione dei risultati effettivi ottenuti. Perfino negli Stati Uniti, un paese che ha fatto del try harder il proprio mantra, l’idea che un risultato eccellente possa essere raggiunto per capacità innata e senza alcuno sforzo piace, e piace fin troppo.
Leggete qui: due psicologi dell’università di Harvard, Chia-Jung Tsay e Mahzarin R. Banaji, s’inventano una curiosa procedura per mettere a confronto i modi in cui sono percepiti i natural (quelli che riescono senza fatica) e gli striver (i lottatori, quelli che devono mettercela tutta).
Nell’esperimento iniziale vengono paragonati due pianisti, dei quali i ricercatori forniscono note biografiche a un pubblico di 103 musicisti esperti: il primo pianista, dicono i ricercatori, è un talento naturale, il secondo è un talento che si costruito attraverso l’applicazione e l’esercizio.
A parole, gli esperti interpellati affermano di apprezzare gli sforzi del secondo e gli pronosticano un futuro di miglior successo, ma alla prova dei fatti (l’ascolto di un’esecuzione di entrambi i pianisti) tutti dicono che non c’è paragone: il primo pianista, quello che ha un talento naturale, suona meglio. Peccato che, in realtà, il pianista sia lo stesso, e che le due esecuzioni sottoposte a giudizio abbiano la medesima qualità.
L’esperimento viene ripetuto con un campione più ampio: 184 persone, alcuni esperti e altri non esperti di musica. Il dato clamoroso è che gli esperti appaiono nei fatti molto più sedotti dall’idea di talento naturale di quanto non siano i non esperti.
In una terza edizione dell’esperimento, un campione ancora più grande (549 partecipanti tra esperti e non esperti) deve valutare singolarmente o l’uno o l’altro dei due pianisti. E di nuovo, perfino in assenza di comparazione diretta, ottiene un gradimento più alto la performance del pianista presentato come “talento naturale”.
Gli autori concludono segnalando che con ogni probabilità il pregiudizio in favore del talento naturale (natural talent bias) vale non solo nel campo della musica, ma anche nel mondo dello sport o dell’impresa.
Cosa significa tutto ciò? Per esempio, vuol dire che tutti, a livello razionale, siamo consapevoli dell’impegno che ci vuole per ottenere e mantenere buoni risultati in qualsiasi campo. Ma che ci piace dimenticarcene, e cullarci nell’illusione magica che i risultati arrivino senza sforzo, e che proprio l’assenza di sforzo li renda più ammirevoli. Addirittura, siamo tanto più propensi a esprimere ammirazione quanto più ogni idea di sforzo viene esclusa.
Parla di questo anche Annie Murphy Paul, che cita l’esperimento di cui avete appena letto commentando la recente decisione dello scrittore Philip Roth di abbandonare la scrittura. Roth è un autore prolifico e i suoi testi sono fluidi: ai lettori e perfino agli addetti ai lavori riesce difficile pensare che dietro ci sia una fatica nel tempo diventata insostenibile. E infatti anche il Guardian gli fa le pulci, non vuole credere che si stia effettivamente ritirando e cita diversi autori che hanno continuato a scrivere dopo aver dichiarato che avrebbero smesso.
Eppure, anche senza ricordare il più che noto 1 per cent of inspiration and 99 per cent of perspiration citato da Thomas Edison come chiave della genialità e del successo creativo, tutte le ricerche (e anche il semplice buonsenso) confermano che perfino i migliori talenti naturali devono investire tempo ed energie per esprimere le loro potenzialità. Se mai, ci vuole una dose di fatica in più per cancellare dal risultato ogni traccia di fatica.
Tra l’altro, il pregiudizio sul talento naturale può risultare particolarmente negativo per gli studenti: quelli che ritengono che capacità e intelligenza siano innate si focalizzano più sull’apparire in gamba che sull’esserlo davvero, evitano le sfide, non ammettono le proprie debolezze e imbrogliano pur di nasconderle, non si pongono obiettivi di miglioramento. È un modo di comportarsi che, nel lungo periodo, danneggia perfino un potenziale genio.
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