Due cose possono danneggiare qualsiasi lavoro, e in modo particolare un lavoro creativo: la prima è accontentarsi subito di un risultato mediocre, rinunciando a migliorarlo. La seconda è non accontentarsi mai ed è, paradossalmente, più grave: significa, alla fin fine, rinunciare del tutto a produrre, perché niente sembrerà mai buono abbastanza. È il perfezionismo che la psicologia definisce [maladaptive][1] (disadattativo).
Chiarisco: l’insoddisfazione è una potente leva per la creatività e in generale per agire. Ci porta a farci domande. A svolgere un compito con dedizione e in modo meticoloso. Ad andare oltre. A essere tenaci e a [porre riparo agli (inevitabili) errori][2] che, fra l’altro, fanno parte di qualsiasi processo di invenzione o di scoperta.
La tensione a fare del proprio meglio e a dare il massimo (quella che, ahimè, la scuola non sempre riesce a trasmettere agli studenti) è sana e positiva: suvvia, non siamo dei mollaccioni e il cimento ci appassiona, no? Inoltre, in un paese a cui spesso tocca fare i conti con le proprie tendenze furbette, pressapochiste e autoindulgenti, una sana vocazione al perfezionismo andrebbe a maggior ragione considerata massimamente preziosa.
Ho scritto “sana vocazione”, però. Qualcosa di diverso da “tensione irrealistica e ansiogena”. La differenza, sottile ma cruciale, è analoga a quella che passa tra [essere rigorosi oppure rigidi][3], e da una parte riguarda gli obiettivi che ci poniamo (“dare il meglio di noi” verso “realizzare il massimo di tutto, di tutti, di sempre”), dall’altra illumina il rapporto che abbiamo con noi stessi e con il nostro lavoro.
Il desiderio di dare il meglio possibile, mettendoci per certi versi “al servizio” del nostro compito, ci aiuta a focalizzarci su quanto stiamo facendo fino a dimenticarci di noi stessi e a entrare nello [stato di flow][4], il flusso creativo e produttivo di cui parla Mihály Csíkszentmihály.
La tensione irrealistica verso una perfezione assoluta, invece, ci riempie di ansia e senso di inadeguatezza, ci fa temere gli errori fino a paralizzarci, mina l’autostima e ci lascia sfiniti, insoddisfatti, piagnucolosi e depressi. Di fatto, siamo talmente preoccupati di noi, e di quanto siamo o non siamo all’altezza delle nostre stesse gigantesche aspettative, da finire per trascurare le logiche, lo scopo, la materia stessa del compito che dovremmo svolgere.
[Mind Tools segnala][5] che, tra le altre cose, il perfezionismo disadattativo toglie alla creatività la sua componente più incantevole, quella giocosa, e il desiderio di sognare. Dà alcune dritte per riconoscere quel tipo lì di perfezionismo e alcuni consigli di buonsenso per venirne a capo: i due più rilevanti, mi sembra, sono “datti mete realistiche” e “stai attento alle tue emozioni”, mentre l’ultimo, “sii spontaneo” è una bella ingiunzione paradossale[][6] e, secondo me, non aiuta.
Psychology Today esordisce con la clamorosa affermazione che “[il perfezionismo è un crimine][7] contro l’umanità”. Subito dopo, per fortuna, articola un ragionamento piuttosto convincente: il perfezionismo irrigidisce i comportamenti, e in quanto tale contrasta la capacità di adattarsi, fondamentale per la sopravvivenza.
E poi: impedisce di affrontare nuove sfide e di assimilare nuova conoscenza, non è connesso tanto con l’avere alti criteri di qualità quanto con la paura di sbagliare e con uno stile educativo familiare intrusivo, ipercritico e intollerante verso gli errori. Al termine dell’articolo alcune buone dritte per i genitori su come fare critiche costruttive e apprezzamenti non costrittivi.
Se volete capire quanto e come siete perfezionisti, [potete fare il test][8] proposto da Psychology Today (sono quarantasei domande, per venti minuti). Non è male.
[Invece L’Huffington Post vi propone una lista][9] intitolata 14 segni che il vostro perfezionismo è andato fuori controllo. Uno dei più rivelatori è la tendenza a procrastinare a ogni costo: di nuovo, ecco la paura di sbagliare, di essere malgiudicati e di incorrere nella disapprovazione sociale.
David Foster Wallace, che lo conosceva bene, racconta il “blocco da perfezionismo” in un’intervista del 1996 trasformata in una graziosa animazione: “Se la tua fedeltà al perfezionismo è troppo alta, non farai mai nulla”, dato che “fare qualcosa è intrinsecamente tragico, perché significa sacrificare ciò che è meraviglioso e perfetto nella nostra testa per quello che è davvero”.
È la psicologa Tamar Chansky a proporre un’ulteriore, interessante strategia per contrastare il perfezionismo deteriore: pensare che l’opposto del perfezionismo non è la mediocrità, ma la realtà (incognite, ambiguità ed errori compresi) e, soprattutto, la possibilità. Quella che ci fa, a volte, incappare in un errore fertile e fortunato. E che, in tutti gli altri casi e da tutti gli altri errori, ci fa imparare qualcosa.
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