Leggere è un’attività del tutto innaturale, onerosa dal punto di vista sia fisico (la nostra vista non è fatta per stare a lungo focalizzata su una pagina o uno schermo) sia mentale. Decodificare una stringa di testo impegna diverse aree cerebrali in vorticose operazioni di riconoscimento dei segni, conversione di quei segni in suoni, ricordo delle parole che a quei suoni corrispondono, e interpretazione.
Nonostante l’oggettiva fatica della lettura, molte persone, e anche la sottoscritta, stentano a capire come si possa volontariamente rinunciare al piacere, al conforto e all’avventura di leggere, e restano fermamente (direi quasi: religiosamente) convinte che la lettura sia un’attività non solo indispensabile, ma altamente gratificante. Però molte più persone (la maggioranza, almeno nel nostro paese) sono altrettanto certe che non lo sia. Infatti, secondo gli ultimi dati Istat, continuano a non leggere neanche un libro all’anno.
Tra i non lettori si contano anche persone scolarizzate, che tecnicamente “sanno” leggere, ma non hanno mai sperimentato (o hanno dimenticato) il piacere della lettura. Il fatto è, credo, che il piacere della lettura comincia solo quando finisce non la fatica del leggere, ma la percezione della fatica.
Pensare in modo laico e pragmatico
Insomma: il piacere nasce quando il complesso meccanismo della lettura diventa così automatico e fluido da apparirci naturale, anche se non lo è. Ma questo avviene solo se leggiamo tanto e se continuiamo a farlo con entusiasmo ed energia.
Dicevo prima: l’amore per la lettura è una passione così forte che arriva a somigliare a una religione. E gli adepti, cioè i lettori forti, tendono – secondo me per eccesso di fede – a pensare di poterla trasmettere in maniera, appunto, religiosa: “Leggi, perché è la cosa giusta da fare e te lo dico io!”.
La lettura ad alta voce è, infine, uno straordinario, e temo invece sottovalutato, strumento didattico
Ma se si vuole ottenere qualche risultato, specie in un contesto difficile come quello italiano, conviene pensare e progettare in maniera del tutto laica e pragmatica.
Dire a un adulto non lettore che dovrebbe cominciare a leggere perché è bello e prima o poi ci proverà gusto, è controintuitivo e paradossale: i suoi ricordi di lettura scolastica dicono probabilmente qualcos’altro. La sua attuale e men che sporadica esperienza di lettura è del tutto diversa. La soluzione brillante sarebbe riuscire ad anteporre, valorizzandolo, il piacere della lettura alla fatica del leggere: c’è un modo per farlo, credo, ed è l’assai sottovalutata lettura ad alta voce.
Si può fare sia in piccoli gruppi, sia per radio, sia in grandi occasioni pubbliche: quelle che, tra l’altro, hanno portato migliaia di persone nelle chiese e nelle piazze a sentire Dante, letto da Sermonti o da Benigni. L’unica condizione è che chi legge sappia e voglia farlo senza birignao, cioè in modo privo di enfasi leziosa. E senza “salire in cattedra”.
Ma la lettura ad alta voce non è solo una maniera per conquistare non lettori, o per incoraggiare i lettori deboli. È anche, come scrive The Atlantic, un’arte intima e perduta che può essere riscoperta, anche tra lettori sicuri di sé, per condividere l’emozione speciale di un libro. Ed è il modo migliore per avvicinare i bambini ai libri. Per ampliare il loro vocabolario. Per migliorare la loro competenza emotiva. Per entrare in relazione con loro. Per farne, da grandi, dei lettori. Ma almeno questi fatti, per fortuna, sono ormai ampiamente noti.
Passione e incanto
La lettura ad alta voce è, infine, uno straordinario, e temo invece sottovalutato, strumento didattico. Ne ho esperienza diretta e, nonostante sia passato un sacco di tempo, assai vivida.
Siamo verso la fine degli anni settanta e frequento lettere all’Università Statale. Quell’anno il corso di letteratura moderna e contemporanea, tenuto da Sergio Antonielli, verte sulle opere di Carlo Emilio Gadda. È un autore tanto affascinante quanto ispido e complicato. Le lezioni hanno una struttura ricorrente: per tutta la prima parte Antonielli non fa altro che leggerci Gadda a voce alta. Nella seconda parte, che è più breve, spiega.
Quelle letture, tenute in una grande aula che se ne sta in assoluto silenzio, catturata, sono straordinarie. Sono i toni, le pause, gli accenti e i colori della voce di Antonielli a dare ai testi non solo comprensibilità, indicando quel che i testi “vogliono dire”, ma anche fascino, verità, vigore, passione e incanto.
Solo dal modo in cui Antonielli dice il nome “Ingravallo” noi, seduti ad ascoltarlo, sentiamo (e non con le orecchie, ma attraverso un’emozione) di che umore è il commissario in quel punto della vicenda. È la voce che legge a trasmetterci la furia implacabile che anima l’invettiva di Eros e Priapo. A dirci che cos’è davvero La cognizione del dolore.
Gli apparati critici vengono dopo.
Porto l’opera omnia all’esame e mi prendo una lode di cui vado ancora sommamente orgogliosa. Non ho mai letto né studiato con maggior entusiasmo. Se oggi rileggo Gadda, a distanza di quarant’anni, sento ancora la voce di Antonielli.
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