Quello che gli economisti trascurano, e le economiste no
Mi trovo di fronte ad Alessandra Del Boca, economista e docente di politica economica, e Antonietta Mundo, consulente statistico attuariale (in altre parole: una che sguazza tra numeri e tabelle con immensa disinvoltura). Sono due donne che parlano e scrivono di scelte economiche e politiche con la stessa lucida, competente vivacità con cui ci si aspetta (e ahimè ci si continua ad aspettare) che le donne parlino di frivolezze.
Non resisto: mi presento con una singola domanda, scritta su un tovagliolino del bar. Che cosa la maggior parte degli economisti maschi tende a trascurare quando ragiona di benessere, sviluppo e futuro? Lo so, è una domanda generica e tendenziosa, ma sono curiosa di vedere la loro reazione. E poi mi piacerebbe trovare una prospettiva femminile che integri e migliori le prospettive correnti.
Si scambiano un’occhiata. “Dai, se torni domani ti rispondiamo”, mi dicono. Il giorno dopo mi presento con registratore e tablet per gli appunti. Partono in quarta. Del Boca presenta ampie sintesi, Mundo puntualizza, specifica, dettaglia. Un bel gioco di squadra.
“Per dirla in modo semplice”, esordisce Del Boca, “il nostro stato e i nostri governi non hanno capito che senza il lavoro delle donne l’economia non cresce. La partecipazione femminile al mercato del lavoro è la leva più potente per far crescere il reddito. Le donne sono sottoutilizzate in termini sia qualitativi sia quantitativi”.
Per ogni 100 donne che entrano nel mercato del lavoro si creano infatti 15 nuovi posti di lavoro
Quali sono le conseguenze?
Nessun governo si è ancora reso conto di un piccolo dettaglio, che ha un impatto enorme in termini di crescita: l’occupazione femminile è un moltiplicatore dello sviluppo. McKinsey calcola che la parità lavorativa uomo-donna nel mondo farebbe aumentare il pil globale del 26 per cento. Dal 2011, la Banca d’Italia afferma che se si raggiungessero gli obiettivi di Lisbona (occupazione femminile al 60 per cento) il pil aumenterebbe di 7 punti.
Più donne entrano nel mercato del lavoro, più aumenta la richiesta di servizi. Per ogni 100 donne che entrano nel mercato del lavoro si creano infatti 15 nuovi posti di lavoro, che offrono i servizi non più forniti alla famiglia dalle lavoratrici.
Inoltre un singolo reddito da solo non basta a contrastare le avversità in cui può incorrere una famiglia. Nelle famiglie monoreddito i bambini mediamente sviluppano un capitale umano (cioè, un sistema di conoscenze, competenze, abilità) più basso, e rischiano di più di rimanere a loro volta instabili sul mercato del lavoro e incapaci di contribuire alla ricchezza del paese.
In sintesi: un consistente ingresso di donne nel mercato del lavoro creerebbe un reddito aggiuntivo tale da aiutarci a uscire dalla stagnazione, e stabilizzerebbe i redditi delle famiglie.
Migliorerebbe anche la tendenza demografica?
Il problema della denatalità ha un impatto futuro importante sul piano quantitativo. Non è solo una questione di calo generale della popolazione: se fossimo 55 milioni invece che 60 cambierebbe poco. Quello che è grave è lo squilibrio tra le generazioni: il demografo Alessandro Rosina l’ha chiamato degiovanimento.
Interviene Mundo: mentre in questi anni la Francia ha sostenuto la famiglia in maniera importante, evitando il crollo demografico, l’Italia non l’ha fatto. Continua la diminuzione delle nascite in atto dal 2008. Nel 2015 i nati sono meno di mezzo milione (-17mila sul 2014) di cui circa 72mila stranieri (14,8 per cento del totale). I nati che oggi ci mancano sono quelli che tra vent’anni mancheranno sul mercato del lavoro. Anche se cambiassimo oggi le politiche per la famiglia, ci porteremmo dietro questo deficit negli anni futuri.
Mundo snocciola cifre. In sostanza, dice, siamo passati dai 2,5 figli delle donne nate nei primissimi anni venti, ai 2 figli per donna delle generazioni dell’immediato secondo dopoguerra (anni 1945-1949), fino a raggiungere il livello di 1,56 figli per le madri della generazione nata nel 1965 e a 1,37 figli per le madri della generazione nata nel 2014.
Le famiglie andrebbero sostenute dal momento della nascita di un figlio fino a quello della sua indipendenza economica, compresi gli anni dell’università. La Germania, per esempio, lo fa.
Bisogna anche migliorare e attualizzare la qualità dell’istruzione, e offrire formazione non solo teorica: anche questo è un orientamento consolidato a livello internazionale.
Dobbiamo renderci conto che il calo demografico, che si è accentuato dal 2010, non sottrae solo nuove leve al mondo del lavoro, ma sottrae sostegno ai pensionati futuri, che sono i lavoratori di oggi. Se mancano le persone che lavorano e versano contributi, il sistema previdenziale entra fatalmente in crisi.
Tutto ruota attorno alle donne, dunque?
Se non tutto, quasi, aggiunge Mundo. C’è un’altra cosa che potrebbe aiutare la famiglia e le donne: avere un servizio sanitario di qualità e sviluppare servizi dedicati agli anziani invalidi.
Il calo demografico che stiamo vivendo è causato dall’assenza di sostegno alle famiglie.
Nel 2012, l’Istat ha rilevato che in Italia un neonato può contare su 59,8 anni di vita in buona salute se è maschio, solo su 57,3 se è femmina. La differenza è di due anni e mezzo ma, se consideriamo la maggior speranza di vita delle donne (85 anni contro gli 80,3 degli uomini, secondo l’Istat, nel 2014), vediamo che le donne vivono sì più a lungo, ma in peggiori condizioni di salute.
L’assistenza agli anziani migliorerebbe la qualità della vita di tutte le donne, sia anziane sia più giovani, perché i ruoli di caregiving (assistenza familiare e cura) sono quasi sempre delegati al genere femminile.
Giusto. Ma dove troviamo le risorse?
Mundo è tassativa: dobbiamo ristrutturare la spesa pubblica, cosa che non siamo riusciti a fare. Ma le risorse si potrebbero anche trovare con una forte lotta all’evasione fiscale. Basterebbe impiegare strumenti moderni come i big data degli archivi pubblici e i modelli predittivi: i metodi esistono, ma non siamo attrezzati e non abbiamo le risorse umane e la formazione indispensabili per impiegarli a dovere.
È un circolo vizioso che lega le sorti di donne, giovani e anziani, in un sistema economico che non decolla. Come se ne esce?
Del Boca: abbiamo due strade. Possiamo far largo alle donne e migliorare la formazione e le competenze delle nuove generazioni. Oppure possiamo gestire flussi migratori funzionali al nostro modello economico. Molti li vedono come il fumo negli occhi, ma saranno necessari se non si fanno politiche demografiche serie. Tutto questo comunque non compenserà pienamente il buco demografico che abbiamo oggi, causato dall’assenza di sostegno alle famiglie.
Ma si dice che già i pochi giovani che abbiamo non trovano lavoro.
Continua Del Boca: il nostro tasso di disoccupazione giovanile – che alla fine del 2015 era di circa il 38 per cento, contro il 7 per cento della Germania – dipende da tre fattori importanti: in primo luogo non abbiamo ancora un’agenzia nazionale dell’impiego capace di far incontrare domanda e offerta di lavoro.
Inoltre la nostra politica di occupabilità dei giovani, che si chiama Garanzia giovani, si è rivelata molto meno efficace di quanto il governo sperasse. Questo succede perché i nostri giovani non hanno (ed eccoci al terzo punto) una formazione adeguata a incontrare una domanda di lavoro qualificata.
Per esempio, c’è da parte delle imprese una forte domanda di competenze nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che oggi in Italia non si trovano facilmente. Sull’incontro tra domanda e offerta di lavoro c’è un ulteriore paradosso: funzionano quasi meglio i siti come Linkedin che la struttura pubblica dedicata.
Interviene Mundo: per dare impulso all’occupazione abbiamo anche bisogno di digitalizzare il paese. L’assenza o la lentezza di collegamenti riducono la produttività e la prospettiva di sviluppo e, tra l’altro, non consentono di incrementare nuovi servizi online connessi con la sharing economy.
Se riguardo i miei appunti, mi sembra che a legare tutto quello che mi avete detto finora è un di più di attenzione alle famiglie e alle vite dei singoli individui. È così?
Non si può ragionare di economia trascurando le persone, dice Del Boca. Questo ci porta ad affrontare altri due temi: il bisogno che le persone e le famiglie hanno di avere certezze sui cui contare, e il bisogno d’interpretare diversamente il rapporto tra generazioni.
Ci promettiamo di tornare presto a parlarne.