Sul significato di “conflitto” conviene mettersi d’accordo.
La diversità di pensiero è fertile, e una divergenza di opinioni o di valutazioni non è un conflitto. Del resto, una discussione serrata, se è condotta con rispetto e onestà intellettuale, può anche trasformarsi in un’occasione di apprendimento, di creatività e di crescita per tutte le parti coinvolte.
I conflitti sono un’altra cosa.
Scoppiano quando interagiscono due soggetti che sono interdipendenti. Quando i due soggetti hanno valori, sistemi di credenze, interessi e obiettivi divergenti. E quando almeno uno dei due pensa che l’altro contrasti attivamente i suoi valori, le sue credenze, i suoi interessi e i suoi obiettivi.
Conoscere le dinamiche dei conflitti è importante per diversi motivi.
In primo luogo, i conflitti fanno parte della vita di ognuno di noi: oggi più che mai, è impensabile che tutti (gli individui, le organizzazioni, le imprese, le nazioni) rinuncino a promuovere i propri interessi e a raggiungere i propri obiettivi. Dunque, come scrive in un bellissimo saggio Marianella Sclavi, “non possiamo esimerci dal suscitare conflitti ma, al tempo stesso, non li sopportiamo”.
In secondo luogo, i conflitti (tutti quanti: da quelli familiari a quelli internazionali) o vengono contenuti o risolti, oppure peggiorano in maniera irreparabile: un conflitto può infatti accrescersi seguendo logiche proprie, che sfuggono alla volontà e al controllo dei protagonisti.
Per rendersene conto, basta dare un’occhiata al modello di Glasl. Ve ne ho parlato in un recente articolo (se vi è sfuggito potreste leggerlo, prima di proseguire su questa pagina). Ripubblico il modello qui, perché ci servirà nuovamente.
È uno schema che distingue nove fasi consecutive: si comincia con “tensioni” (fase 1) e si finisce con “entrambi negli abissi” (fase 9). Non è una bella prospettiva.
In terzo luogo: si possono fare diverse cose per contenere i conflitti e per risolverli. Va detto che sulla soluzione dei conflitti sono state scritte migliaia di pagine, prodotte molte teorie e varati una quantità di corsi universitari. Farò del mio meglio per offrirvi almeno qualche suggestione utile.
Per esempio.
In caso di conflitto ci sono due cose da fare sempre. La prima è riconoscere che il conflitto esiste, e che converrebbe affrontarlo senza aspettare che la situazione peggiori. La seconda è esplorare con onestà e pazienza le preoccupazioni, i bisogni, le istanze che hanno originato il conflitto.
Non tutti però, quando c’è un conflitto, sono portati ad ammetterne l’esistenza. Molti ricercatori (tra cui Pruitt e Rubin, nel 1986) hanno contribuito a costruire una mappa che individua cinque diversi stili nell’affrontare i conflitti, e tra questi c’è lo “stile evitante”: si cambia argomento, si scherza minimizzando, si nega perfino che un problema esista, o si aspetta che “le cose si sistemino da sole”. Ovviamente, negare che esiste un conflitto non è il modo migliore per avviarsi a risolverlo.
Basarsi su fatti reali
Dicevamo che il secondo punto è esplorare le origini del conflitto. Per riuscirci c’è, per esempio, una tecnica che si chiama evaporating cloud. È uno dei sei processi di pensiero compresi nella teoria dei vincoli (Toc – Theory of constrainsts), elaborata dal guru israeliano del management Eliyahu Moshe Goldratt.
Qui ci basta sapere che si tratta di esaminare la logica (ed eventualmente le fallacie logiche, pensiero dicotomico compreso) che sta alla base del conflitto, per rompere presupposti e pregiudizi e riconfigurare le percezioni degli antagonisti arrivando a una decisione fondata sui fatti reali.
È un approccio molto strutturato, che può apparire equo – e quindi rassicurante – a soggetti che condividono una medesima cultura aziendale.
Un modo del tutto diverso per indagare l’origine del conflitto è quello che Marianella Sclavi chiama “atteggiamento esplorativo”: significa valorizzare la componente emotiva, ed esaminare le diverse posizioni senza esprimere giudizi, dando per scontato che possano esistere più prospettive ugualmente legittime, che potrebbero integrarsi in nuove sintesi, da inventare cooperando.
Facilitare la comunicazione
Ma tutto ciò implica un’attitudine alla comunicazione collaborativa: un modo di interagire che chi è in conflitto non è propenso a praticare, specie se il conflitto è radicato in profonde differenze cognitive e culturali. La presenza di un facilitatore diventa allora indispensabile per incoraggiare questa modalità.
A proposito di comunicare, bisogna anche sottolineare che il linguaggio aggressivo, manipolatorio e screditante impedisce ogni forma di comunicazione collaborativa. Del resto, uno stile aggressivo-intimidatorio è stato codificato e censito nella mappa di cui parlavamo qualche riga sopra. È fatto di insulti, minacce e voglia di prevalere a ogni costo, fino all’intimidazione e alla violenza.
Se ho la sensazione che qualcuno mi ascolti senza pregiudizi, mi disporrò a mia volta ad ascoltare nello stesso modo
Se ci pensate bene, vi accorgete che entrambi i passaggi (riconoscere che a un certo punto è sorto un conflitto, capire da quali diversi elementi è stato originato) portano indietro nel tempo: a prima che tutto accadesse. È anche un modo per recuperare un po’ di distanza dall’argomento del contendere e per raffreddare gli animi.
È, inoltre, un modo per verificare se per caso esiste almeno un elemento sul quale si potrebbe concordare. Per esempio: “Abbiamo visioni diverse tanto da detestarci, ma entrambi vogliamo il bene (… dell’azienda, dell’organizzazione, dei figli, del paese…).”
Scoprire di avere almeno uno squarcio di visione condivisa invita a passare dalla modalità “combattimento” alla modalità “ascolto”, e questo è un primo ottimo risultato, anche perché le persone (e perfino i contendenti) tendono a “ricambiare per non essere da meno”: se ho la sensazione che qualcuno mi ascolti senza pregiudizi, mi disporrò a mia volta ad ascoltare nello stesso modo.
Un disastro che non risparmia nessuno
Tutto questo, mi sembra, funziona (e rieccoci al modello di Glasl) nelle prime fasi del conflitto, ma non oltre il cruciale gradino 5: quello in cui si fa di tutto perché l’avversario sia screditato tanto da perdere la faccia.
A quel punto la fiducia nel dialogo è già svanita, la fase degli atti dimostrativi è già superata, l’avversario ha subìto attacchi personali e la violenza dello scontro si è intensificata. Se si è arrivati fin qui, per venirne a capo si rende indispensabile la figura terza di un mediatore autorevole. Se no, non se ne esce.
Se il conflitto si intensifica ulteriormente, arrivando agli ultimi tre gradini della scala di Glasl, i contendenti stessi sono ormai travolti dagli eventi e impossibilitati a modificare la situazione. L’unica soluzione è un intervento di forza. In altre parole, bisogna che arrivi qualcuno dotato del potere di mettere fine allo scontro: un giudice, un arbitro, i caschi blu delle Nazioni Unite. È un disastro che non risparmia nessuno.
Infine.
“Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo”. È l’incipit di Anna Karenina, uno dei più famosi romanzi dell’intera storia della letteratura. Ecco: anche la soluzione dei conflitti deve tener conto che ciascuno confligge a modo suo, e che quindi la gestione richiede un’alta dose di flessibilità.
E se da tutto quanto avete letto voleste ricavare una sola, singola raccomandazione, suggerirei questa: mai far perdere la faccia all’avversario. I rivali senza volto sono i peggiori.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it