La vista corta sulla crisi climatica
L’attenzione pubblica è ondivaga. Ora, mentre scrivo, a catturarla sono le elezioni italiane, il coronavirus, l’impeachment di Trump. Appena l’altro ieri erano il deludente forum di Davos e la crisi climatica, che oggi sembrano già roba vecchia. Il varo del manifesto di Assisi per un’economia verde è tutto sommato rimasto sotto traccia, sovrastato dalla cacofonia elettorale.
Eppure, tra una manciata di mesi, con ogni probabilità sarà roba vecchia tutto quanto oggi sta in cima ai nostri pensieri. L’emergenza climatica, invece, continuerà a esistere, anche mentre ci ostineremo a parlare e a preoccuparci d’altro.
Ho cominciato a occuparmi di ambiente negli anni settanta, quando il tema non era di moda e ne parlavano in pochi. Tra quei pochi, lo straordinario Lucio Gambi. Eravamo meno di dieci studenti a seguire, alla Statale di Milano, il suo corso intitolato “Le catastrofi naturali sono prevedibili”. L’affermazione, in apparenza paradossale, sosteneva una tesi a quei tempi dirompente: la cosa che rende “prevedibili” le catastrofi “naturali” è che a causarle è la cecità rapace dell’intervento umano. E quando si è ciechi e rapaci si combinano guai.
Governi inconcludenti
In cinquant’anni molte cose sono cambiate. Il tema ambientale è entrato di prepotenza nell’immaginario collettivo e nell’agenda internazionale. Anche buona parte dell’opinione pubblica è consapevole del fatto che si tratta di un rischio globale.
Del resto, l’intensificarsi degli eventi estremi (pensiamo agli incendi californiani e australiani) è sotto gli occhi di tutti. Simmetricamente, però, si intensifica anche la disinformazione. Per esempio, molti siti negazionisti hanno rilanciato la notizia falsa che gli incendi australiani siano stati causati da piromani.
Intanto, le previsioni e le proiezioni degli scienziati sono diventate molto più precise di quanto non fossero negli anni settanta. I dati sulla crescita delle temperature sono incontrovertibili. I discorsi sul clima si sono evoluti. Dagli appelli apocalittici (e per molta parte del pubblico esagerati e respingenti) del secolo scorso si è passati, specie nell’ultimo periodo, a descrizioni più strutturate, espresse in termini comprensibili a tutti (le warming stripes sono un esempio eccellente), che prevedono anche proposte di soluzione possibili e urgenti, e praticabili modelli alternativi di sviluppo.
E poi c’è il fenomeno-Greta, che finisce perfino sulla copertina di Time come persona dell’anno 2019. Appunto: la persona “giusta” al momento “giusto”. Una ragazza la cui presenza riesce a catalizzare un sentimento collettivo e a dargli una consistenza e una visibilità globale, e un’evidenza numerica. Tuttavia, continua a risultare fin troppo facile (specie per qualche vecchio marpione: l’abbiamo visto con Trump) ascoltare con condiscendenza, o peggio, una donna. Giovane. E con la sindrome di Asperger.
Sono tre tratti che per un verso costituiscono la forza di Greta, ma per l’altro incoraggiano tutti i vecchi marpioni a proiettarla nell’ambito della minoranza Asperger della minoranza adolescente della metà femminile del mondo, che tutt’ora ha meno potere, meno risorse, meno voce.
Nella nostra memoria non c’è ancora un numero di catastrofi climatiche sufficiente a terrorizzarci quanto basta
C’è comunque da cominciare a chiedersi come mai i governi sembrino così inconcludenti, nonostante gli appelli e i ripetuti allarmi della comunità scientifica. E quando perfino la Banca dei regolamenti internazionali (l’istituzione che fa da supporto alle banche centrali mondiali) pubblica un preoccupato rapporto intitolato Green swan: il cigno verde della catastrofe ecologica che potrebbe sconquassare i mercati finanziari globali.
Provo a elencare alcuni possibili motivi di ordine percettivo e cognitivo, perché perfino in quest’ambito cruciale, come in ogni altro, le decisioni sono molto meno razionali di quanto ci piacerebbe.
Un tema scomodo e complesso
1) Il problema del riscaldamento globale è talmente grande e complesso che probabilmente non riesce a entrare, tutto quanto, nello spazio cognitivo dei decisori politici. Nessuno dei quali, oltretutto, ha una competenza specifica tale da metterlo in grado di valutare fino in fondo l’urgenza dei dati. Inoltre, è un tema scomodo e altamente ansiogeno, che mal si concilia con la retorica muscolare e con il senso di onnipotenza di molti capi di governo.
2) Essendo un problema complesso, chiede soluzioni ad alta complessità, i cui risultati si vedranno solo nel medio-lungo periodo. Esattamente il contrario di quello che vogliono i politici: soluzioni facili, con esiti certi, che facciano guadagnare consenso immediato e che funzionino a breve. Inoltre, è il peggior problema da proporre a leader che per ruolo e posizione tendono a pensare in primo luogo a se stessi e alle proprie fortune: altro che preoccuparsi dell’intera umanità, e delle prossime generazioni.
3) È difficile per chiunque figurarsi il futuro. Lo è specie per chi è totalmente immerso nei giochi di potere del presente. Ed è terribile dirlo: noi riusciamo a immaginare il futuro solo a partire dalla nostra memoria del passato. Ma nella nostra memoria non c’è ancora, evidentemente, un numero di catastrofi climatiche sufficiente a terrorizzarci quanto basta.
4) È un problema che chiede soluzioni condivise: nel senso che è più grosso dell’ambito di intervento di ciascun singolo stato. E si porta dietro una gigantesca catena di altri giganteschi problemi: per esempio il tema energetico, attorno al quale girano mostruosi interessi. O il tema delle disuguaglianze e quello del debito ecologico dei paesi sviluppati nei confronti dei paesi in via di sviluppo. E ancora: si chiama Earth overshoot day (overshoot significa oltrepassare, passare il limite) il giorno dell’anno in cui finiamo di consumare del tutto le risorse planetarie che dovrebbero essere sufficienti per l’anno intero. Nel 2019 è stato il 29 luglio, in anticipo di dieci giorni sul 2018. Vuol dire che già ora servirebbe una Terra e tre quarti per soddisfare il fabbisogno globale di risorse.
Ma non tutti consumano risorse alla stessa maniera. Se il mondo intero facesse come gli Stati Uniti, servirebbero cinque Terre. Se facesse come l’Australia, ne servirebbero quattro e un pezzettino. Se facesse come l’Italia, ne servirebbero due e mezzo. Se facesse come l’India, quasi un terzo di Terra avanzerebbe (dati Global footprint network).
5) A proposito di debito ecologico: assumersi l’onere di contrastare l’emergenza climatica significa assumersene in prima persona, anche se pro-quota, la responsabilità (e implicitamente la colpa). Molto più facile negare l’evidenza. E poco importa che il negazionismo climatico sia una reazione primitiva, infantile, immatura e irrazionale, oltre che pericolosa.
6) Dicevamo: Greta è uno straordinario catalizzatore, ma lei stessa sa perfettamente di non essere “la” soluzione. E attorno a lei si è raccolto un ampio movimento di opinione che però non ha ancora trovato una rappresentanza politica capace di esercitare pressioni sufficientemente forti. La sensibilità al cambiamento climatico non è diventata (e dovrebbe esserlo) la prima, o una delle prime discriminanti per esprimere un voto. Invece il contrasto alla crisi climatica, nei programmi dei partiti, ha spesso funzioni solo decorative. È uno dei tanti temi. Oggi nel parlamento europeo ci sono 69 deputati verdi (nessuno eletto dall’Italia) su 751. È un bel drappello rispetto al passato anche recente, ma resta ampiamente minoritario.
Non resta altro da fare che insistere, e insistere, e insistere. Sapendo bene che azioni individuali di autolimitazione sono utili e virtuose, ma è illusorio pensare che da quelle passi la soluzione del problema, che è sistemico.
Mentre stavo, come tutti, incollata alla tv e alla contingenza per seguire i risultati elettorali, ho sentito dire “green economy” (Nicola Zingaretti). Spero che non si tratti solo di una citazione decorativa, perché quella sarebbe una bella sfida coraggiosa. E un modo per proiettarsi nel futuro, allungando e ampliando per una volta la vista corta, marpiona ed egoriferita di tanta politica, nazionale e non solo.