Chi sostiene di non aver mai detto una bugia in vita sua sta con ogni probabilità mentendo. E non è solo l’eccellente Hugh Laurie - dottor House a dirlo. Lo psicologo sociale Jerald Jellison, in un testo uscito nel lontano 1977, afferma (l’affermazione è stata ampiamente ripresa nei decenni seguenti) che le persone sono solite mentire tra le dieci e le duecento volte al giorno.

Per la maggior parte, si tratta di bugie inoffensive. Sono piccole menzogne tese a fluidificare la vita sociale e a salvaguardare i rapporti interpersonali o l’immagine di sé: “Certo, va tutto alla grande”, “sto arrivando”, “che piacere vederti”, “scusa, la tua email era finita nella spam”, “ti trovo in ottima forma”, “oh, grazie, desideravo proprio una cravatta marrone”.

Robert Feldman, psicologo alla Amherst university, in uno studio assai citato, racconta di aver diviso in coppie 242 studenti che non si conoscono. All’interno di ciascuna coppia, uno studente deve autopresentarsi all’altro, o all’altra, nel corso di un incontro della durata di dieci minuti. Ad alcuni è assegnato il compito di “apparire competenti”, ad altri quello di “apparire gradevoli”, e a un gruppo di controllo non viene data nessuna raccomandazione specifica.

Bugie di lungo termine
Risultati: oltre il 60 per cento degli studenti intervistati dal ricercatore ammette di aver detto una media di tre bugie nell’arco di dieci minuti (ma si registrano picchi di dodici bugie). Non c’è differenza quantitativa tra menzogne maschili e menzogne femminili, ma risulta chiaro che chi ha un obiettivo specifico mente più di chi non ne ha: come se la pura verità non bastasse ad apparire simpatici o competenti.

Ovviamente, sottolinea il ricercatore, non possiamo avere la certezza che in quei dieci minuti anche il restante 40 per cento non abbia, consapevolmente, o inconsapevolmente, mentito, al livello verbale o non verbale (anche un sorriso o un cenno di assenso può essere una menzogna).

In un ulteriore studio condotto con gli stessi criteri, Feldman verifica che il 78 per cento dei partecipanti mente, e che le menzogne crescono (questo è un punto interessante) se ai partecipanti viene detto che avranno ulteriori occasioni per incontrarsi.

Il pomeriggio e la sera le persone sono più propense a mentire

Sarebbe bene sapere in che momento del giorno Feldman ha condotto il suo studio, perché un altro dato notevole arriva da una ricerca dell’università di Harvard: si tende a mentire meno quando è mattina, di più quando si avvicina la sera. La qual cosa è curiosa, perché mentire implica un notevole sforzo cognitivo, dato che il cervello deve costruire dal nulla una coerente realtà alternativa. È un compito che dovrebbe risultare più gravoso quando si è più stanchi.

Però anche il motivo per cui di sera si mente di più ha a che fare con la stanchezza: l’autocontrollo a sua volta si affatica, e allenta la sua sorveglianza a mano a mano che affronta i compiti della giornata. Così, il pomeriggio e la sera le persone sono più propense a mentire (i ricercatori registrano un incremento della propensione del 20 per cento, che è notevole), così come sono più propense a trasgredire attuando comportamenti antisociali, o a eccedere con cibo e alcol.

Indicatori di menzogna
Mentire è un atto collaborativo, dice la psicologa Pamela Meyer in un Ted talk che merita di essere guardato. Spesso diamo credito alle menzogne che soddisfano un nostro bisogno o che ci promettono qualcosa che desideriamo. La menzogna, di fatto, colma il divario tra desiderio e realtà di uno dei due soggetti, e forse di entrambi.

È assodato che il poligrafo (la macchina della verità) non riesce a intercettare le bugie, ma solo lo stato di agitazione dell’individuo, che può essere in ansia proprio perché viene sottoposto al test. È invece vero che chi mente sperimenta un “effetto Pinocchio”. No, il naso non si allunga, ma la sua temperatura cresce, e sarebbe questo il motivo per cui chi mente tende a toccarselo di frequente.

È altrettanto assodato che non siamo per niente bravi a intercettare le bugie altrui: ci riusciamo, dice Meyer, per un misero 54 per cento delle volte, mentre gli esperti ci riescono il 90 per cento delle volte.

Meyer mostra diversi esempi, e segnala alcuni indicatori di menzogna. Alcuni riguardano quel che si dice: per esempio, chi afferma troppe volte che sta dicendo la verità, o chi aggiunge una quantità di dettagli irrilevanti, probabilmente mente. Mente chi sta immobile con la parte superiore del corpo, o chi sorride solo con la bocca e non con gli occhi. Non è invece sempre vero che chi evita il contatto oculare stia mentendo: molti bugiardi ti guardano dritto negli occhi proprio per convincerti che stanno dicendo la verità.

Tra bugia e bugia ci sono differenze sostanziali, che noi percepiamo in maniera intuitiva

Dicevamo: mentire è faticoso. Ma diventa meno faticoso quanto più il cervello si abitua a dire bugie. La disonestà è una parte integrante del nostro mondo sociale – scrivono i ricercatori dell’University College London – e influenza ambiti che vanno dalla politica alla finanza alle relazioni interpersonali. Le deviazioni dal codice morale sono spesso descritte aneddoticamente come una serie di piccole violazioni che crescono nel tempo.

La ricerca attesta il verificarsi di un incremento graduale (gradual escalation) della disonestà egoistica, via via che l’abitudine alla menzogna riduce il disagio etico connesso con il fatto stesso di mentire. Attesta inoltre che quanto prima si comincia a mentire, quanto meglio ci si adatta a farlo più frequentemente, e con bugie maggiori, o peggiori. I ricercatori parlano testualmente di “effetto palla di neve”. E a noi vengono subito in mente i mentitori seriali.

Esistono, in sostanza, molti motivi per mentire. Ma, anche se “tutti mentono”, le bugie non sono tutte uguali. Ci sono, tra bugia e bugia, differenze sostanziali, che noi percepiamo in maniera intuitiva. Si possono dire bugie per cortesia e per amore, o per evitare un momento di imbarazzo, o per (come si dice) indorare la pillola. Ma si dicono bugie anche per non trovarsi in una posizione sfavorevole o per conquistarne una più favorevole. Per evitare un danno o per ottenere un vantaggio sfruttando la dabbenaggine altrui. Si dicono bugie per danneggiare qualcuno o, al contrario, per avvantaggiarlo, e per discolparsi o per esaltare le proprie virtù.

Già Aristotele distingue tra bugie officiose, dette per procurarsi un vantaggio, perniciose e intese a danneggiare gli altri, giocose e dette per divertimento. Jonathan Swift, nel Trattato sull’arte della menzogna politica, identifica menzogne diffamatorie, volte a danneggiare la reputazione di una persona meritevole, menzogne di addizione, intese ad aggiungere meriti a chi non ne ha, e menzogne di traslazione, volte a trasferire meriti (o demeriti) del legittimo titolare a qualcun altro.

Ma la distinzione forse più importante riguarda l’intenzione con cui si mente e le conseguenze della bugia. Piccole bugie quotidiane (le bugie bianche) sono prosociali, dettate dall’empatia e dal desiderio di non offendere o di compiacere. Sono, in sostanza, bugie altruistiche, per molti versi socialmente accettabili e addirittura, almeno nel breve termine, benefiche. Il fatto che anche molti animali che vivono in gruppi usino questo tipo di bugie (ce lo dice uno studio intitolato Why animals lie) sembra confermare che si tratta di un comportamento che offre un vantaggio adattativo.

Ci sono anche bugie antisociali, intese a ingannare, truffare, manipolare, disinformare, calunniare. Sono bugie intese a ottenere un vantaggio materiale o immateriale ai danni di qualcuno, o di molti. Sono definite bugie nere. Hanno una finalità squisitamente egoistica e possono avere conseguenze spaventose. Possono configurarsi come crimini. Se finiscono nel frullatore dei social media, perniciosità e conseguenze peggiorano ulteriormente. Di bugie bianche, nere e blu (sì, ci sono anche queste) tornerò a parlarvi più estesamente.

(Questo è il primo di due articoli sulle menzogne).

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