Quando tutti parlano e pochi ascoltano, è un bel guaio.

Ascoltare è un’attività che coinvolge il nostro sistema sensoriale, le nostre cognizioni, e anche le nostre emozioni e la nostra volontà. È qualcosa di diverso dal sentire, cioè dal puro e automatico percepire stimoli sonori attraverso il senso dell’udito.

Ascoltare vuol dire investire consapevolmente una dose di quella risorsa scarsa e preziosa che è la nostra attenzione, con l’obiettivo di decodificare bene e pienamente i suoni che stiamo sentendo. Lo facciamo isolando quei suoni da eventuali interferenze o disturbi – tutto quello che chiamiamo “rumore”. Connettendoli e ricavandone, poi, un senso compiuto.

Gli schemi dell’ascolto
In una Ted confererence breve (ma molto ascoltata), l’esperto dei suoni Julian Treasure afferma che stiamo perdendo la capacità di ascoltare: da una parte siamo bombardati di stimoli sonori, dall’altra siamo diventati più impazienti e incapaci di cogliere sviluppi e sfumature.

Spiega che ascoltiamo riconoscendo schemi: il più potente di tutti è il nostro nome, che sentiamo e riconosciamo anche in mezzo al chiasso (dunque, se vogliamo farci ascoltare da qualcuno, ricordiamoci di chiamarlo per nome). E poi: ignoriamo i suoni costanti, e intercettiamo le differenze di ritmo e tono (ed ecco perché, se vogliamo essere ascoltati, parlare con voce monotona non è una buona idea).

Ricordiamo solo un 25 per cento di quanto abbiamo ascoltato

Treasure propone alcuni semplici esercizi per migliorare la nostra capacità di ascoltare. Il primo riguarda i suoni. Consiste (e non è così paradossale come sembra) nell’ascoltare il silenzio. L’esercizio più importante riguarda i discorsi e consiste invece nell’essere consapevoli del tipo di relazione d’ascolto che stiamo praticando, e delle sue finalità.
Treasure aggiunge che saper ascoltare è una capacità così fondamentale che andrebbe insegnata a scuola. Non sembra una cattiva idea, dato che la didattica è (ancora) in gran parte fondata sull’ascolto.

Tra le cose che Treasure segnala c’è questa: ricordiamo solo un 25 per cento di quanto abbiamo ascoltato.

Ho il sospetto che la stima di Treasure sia fin troppo ottimistica: nel suggestivo elenco compilato dallo psichiatra William Glasser, il semplice atto di ascoltare risulta connesso con prestazioni addirittura inferiori, almeno in termini di apprendimento.

Glasser era un bel tipo. Si è occupato di istruzione, management, decisioni, salute mentale, trovandosi spesso in disaccordo con i colleghi più conservatori. Il suo elenco è interessante per chiunque si proponga di insegnare o di imparare qualcosa, e ve lo ricopio.

I gruppi in cui si pratica un ascolto di qualità sono più fiduciosi, soddisfatti e creativi

Noi impariamo, dice Glasser, “il 10 per cento di ciò che leggiamo, il 20 per cento di ciò che ascoltiamo, il 30 per cento di ciò che vediamo, il 50 per cento di ciò che vediamo e ascoltiamo, il 70 per cento di ciò che discutiamo con altri, l’80 per cento di ciò che viviamo di persona, il 95 per cento di ciò che insegniamo a qualcun altro”.
Anche Glasser segnala che esistono molti modi di ascoltare. Per esempio, lo si può fare allo scopo di rispondere, oppure allo scopo di capire. Quando ascoltiamo, noi tendiamo a farlo guidati dalla prima delle due motivazioni.

In sostanza, il nostro ascolto è di norma finalizzato a estrarre, dal discorso dell’altro, gli elementi che ci permettono di esprimere noi stessi in una critica, un consenso, una precisazione, un’esortazione o un’opinione. Ascoltare per capire significa, invece, aiutare l’altro a esprimersi, manifestandogli vicinanza. E facendo, se serve, le domande che possono incoraggiarlo a chiarire il suo pensiero, a noi e anche a se stesso.

L’Harward Business Review aggiunge un tassello importante. È normale prassi d’ufficio che i manager diano, alle persone che fanno parte del loro gruppo, periodici riscontri (feedback) sulle prestazioni. L’obiettivo è, ovviamente, quello di migliorarle.

La cosa curiosa è che, perfino nel caso di riscontri positivi (bravo! Avanti così!), nel 40 per cento circa dei casi le prestazioni peggiorano proprio in seguito al riscontro.

Il motivo è semplice: anche se valutate positivamente, le persone si sentono comunque giudicate, e questo fatto le rende ansiose e le porta ad assumere un atteggiamento difensivo. A maggior ragione, se il riscontro è negativo, la reazione classica è minimizzarne l’importanza per salvaguardare la propria autostima.

L’ascolto attivo
Una valida alternativa sembra essere questa: sostituire al riscontro un ascolto di qualità, attento, empatico e non giudicante. È un tipo di ascolto che riduce l’ansia, l’aggressività e la propensione a essere insinceri, diminuisce la polarizzazione e accresce l’autoconsapevolezza e la percezione della complessità.

Alcuni sono convinti che ascoltare in questo modo sia un segno di debolezza, una perdita di tempo, o una pratica destabilizzante. Una quantità di ricerche dimostra che è vero esattamente il contrario: i gruppi in cui si pratica un ascolto di qualità sono più fiduciosi, soddisfatti e creativi.

Questo tipo di ascolto ha una storia, pratiche consolidate, e un nome: active listening, coniato da Carl Rogers e Richard Farson.

L’ascolto attivo viene incoraggiato per la soluzione dei conflitti, la mediazione culturale, la pacificazione delle comunità e dei gruppi. Prevede la totale assenza di distrazioni (se volete davvero ascoltare qualcuno, per prima cosa spegnete il cellulare), l’osservazione del linguaggio del corpo e della prossemica, e una speciale attitudine ad accogliere e memorizzare senza preconcetti qualsiasi informazione emerga, specie quelle inattese. È un tipo di ascolto che non ammette la fretta, il narcisismo o il giudizio.

Riporto qui una sintesi delle sette regole dell’arte di ascoltare formulate da Marianella Sclavi, pioniera dell’ascolto attivo nel nostro paese.

  • Non avere fretta di arrivare alle conclusioni: sono la parte più effimera della ricerca.
  • Quel che vedi dipende dalla prospettiva in cui ti trovi. Per individuare la tua prospettiva, devi cambiarla.
  • Se vuoi capire quello che un altro ti dice, considera che abbia ragione, e chiedigli di aiutarti a capire come e perché.
  • Le emozioni non ti aiutano a capire quel che vedi, ma come guardi. Hanno un codice relazionale e analogico.
  • Un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili. Sta attento ai segnali che più gli appaiono marginali e fastidiosi perché contraddicono le sue certezze.
  • Un buon ascoltatore accoglie i paradossi. Affronta i dissensi come un’appassionante opportunità di esercitarsi nella gestione creativa dei conflitti.
  • Lo humor ti rende esperto nell’arte di ascoltare. Ma quando impari ad ascoltare, lo humor viene da sé.

Ho il fondato sospetto che una maggiore e migliore propensione ad ascoltare migliorerebbe una quantità di cose: dalle relazioni interpersonali a quelle intergenerazionali, dai talk show alla politica, ai climi aziendali. Forse varrebbe la pena di farci, come si dice, un pensierino.

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