Ormai è chiaro che, finita la pandemia, non si tornerà più a lavorare come prima.
Ad affermarlo è il Guardian, in un recentissimo articolo che descrive lo schema al quale hanno già aderito non solo alcuni giganti multinazionali come Google, Salesforce, Facebook e Hsbc, ma anche moltissime medie imprese dei settori più diversi.
La struttura di base sembra essere questa: ogni settimana si passano tre giorni in azienda (per esempio, il lunedì, il martedì e il giovedì) e due a casa (per esempio, il mercoledì e il venerdì). Con questa alternanza, si potrebbero conciliare i vantaggi offerti dal lavoro d’ufficio (le relazioni interpersonali, il senso di appartenenza, il potenziale creativo del lavoro di gruppo) e i vantaggi offerti dal lavoro da casa (maggiore efficienza, minori distrazioni, il tempo risparmiato evitando gli spostamenti, la possibilità di gestire in autonomia le cose da fare).
Sembra che questa idea piaccia non solo alle imprese, ma anche ai lavoratori britannici.
Soddisfazione e rivoluzione
All’interno di un articolo zeppo di altri dati tratti dal rapporto Salary satisfaction 2021, la Repubblica conferma che, anche per gli occupati italiani, “la possibilità di lavorare da remoto è un fattore che aumenta il livello di soddisfazione”. E, per quel che vale, anche diversi dirigenti e imprenditori italiani con cui mi è capitato di parlare in tempi recenti sembrano orientati in questo senso.
È un rapporto della Banca d’Italia a chiarire qual è stata, da noi, la relazione tra stipendi e lavoro agile. “Durante la pandemia di Covid-19, rispetto ai lavoratori non in smart working, la retribuzione di quelli che hanno svolto il lavoro da remoto è stata superiore del 6 per cento, riflettendo in larga parte il maggior numero di ore lavorate (in media, due ore alla settimana, pari a circa il 6 per cento): controllando per il numero di ore lavorate, il differenziale nella retribuzione non è invece significativo”. In sostanza, chi fa lavoro agile ha risparmiato circa 60 minuti al giorno di tempo per gli spostamenti (ma alcune fonti dicono anche di più). Ha monetizzato una parte di questo tempo. E ne ha dedicato l’altra parte, maggiore, a cose diverse dal lavoro.
Le imprese dovranno investire per dotare i dipendenti degli strumenti e della formazione necessari
Il 22 marzo la Microsoft ha pubblicato una ricerca condotta su un campione di oltre 30mila persone in 31 paesi, e intitolata “La prossima grande rivoluzione è il lavoro ibrido. Siamo pronti?”. Anche in questo caso abbiamo una conferma: il 73 per cento degli intervistati desidera poter continuare a lavorare, almeno parzialmente, da casa. Tuttavia, il 42 per cento dichiara di non disporre di spazi adeguati, il 46 per cento dice che l’azienda non contribuisce alle spese, e uno su tre dichiara che, tra documenti e riunioni online, si sente esausto. Questo non è sorprendente: rispetto al periodo prepandemico, il tempo passato in riunione è più che raddoppiato, il numero di persone che producono documenti usando Office è cresciuto del 66 per cento.
Come ogni grande cambiamento, anche questo comprende rischi, opportunità, e una sfida. È ancora lo studio di Microsoft a sottolineare che le imprese dovranno investire per dotare i dipendenti degli strumenti e della formazione necessari a consolidare efficacemente la pratica del lavoro agile. Ma non solo. Dovranno metterli in grado di avere un equilibro soddisfacente tra lavoro e vita privata, con una particolare attenzione ai lavoratori più fragili: tipicamente, le donne e i più giovani.
D’altra parte, il lavoro a distanza può essere un’ottima occasione per praticare politiche inclusive. E potrebbe, a patto che esistano adeguate infrastrutture tecnologiche, adeguata formazione eccetera, favorire proprio i lavoratori a diverso titolo più svantaggiati.
Infinite ricadute
Sembra tutto molto promettente e convincente. Tuttavia, ho la sensazione che non ci stiamo ancora rendendo conto dell’enorme, rapidissimo cambiamento e dell’infinità di ricadute che la pratica estensiva del lavoro agile può portare con sé.
A pensarci bene, tutta la nostra vita di individui adulti ruota attorno al lavoro (o, almeno, con il lavoro deve fare i conti) e tutta la nostra evoluzione come specie ultrasociale si è fondata – ho provato a raccontarlo in un precedente articolo – sui modi in cui, nel tempo, abbiamo organizzato, diviso e condiviso le informazioni e il lavoro.
Per ribadire la profonda interdipendenza tra lavoro e informazione mi basta, credo, ricordare che proprio l’aver cambiato ieri, con l’avvento di internet, il modo in cui ci trasmettiamo informazioni ci permette oggi di cambiare, in un battibaleno, il modo in cui ci organizziamo per lavorare.
A ogni lavoratore dovrebbe essere permesso di lavorare a video spento. Questa è casa tua, non è casa del tuo capo, scrive il Wall Street Journal
Di fatto, in poco più di un anno è cambiato tutto: nel 2019 il lavoro agile riguardava, nel nostro paese, 570mila lavoratori (stiamo parlando di un singolo giorno alla settimana, essenzialmente nelle grandi imprese). Un anno dopo, lavorano da remoto 6,58 milioni persone, circa un terzo di tutti i lavoratori dipendenti italiani. Il Sole24Ore valuta che in un prossimo futuro il lavoro agile possa stabilmente coinvolgere sette milioni di persone.
Nelle grandi imprese già oggi lavora da remoto il 54 per cento dei dipendenti. Un’impresa su due sta pensando di riprogettare i propri spazi fisici.
Chi va in ufficio per tre, o forse per due, soli giorni alla settimana, forse non avrà più bisogno di una propria scrivania. Ecco perché si rivoluzionerà l’assetto degli uffici. Ma ci sarà anche meno gente che sta in ufficio nello stesso momento, e questo vuol dire che diversi spazi saranno inutilizzati. E che alcuni edifici perderanno, almeno parzialmente, la propria funzione. Avremo quartieri per uffici semideserti, come se fosse sempre domenica?
Invece altri edifici, quelli in cui abitiamo, acquisteranno una funzione nuova. Cambieranno i criteri secondo i quali si cerca casa? Ridisegneremo le nostre stesse abitazioni: non più solo luoghi dove dormire, cucinare e mangiare, stare insieme e conservare le nostre cose, ma anche luoghi di lavoro? E di quanto spazio avremo bisogno, dato che appoggiare il computer sull’asse da stiro è una soluzione brillante, ma non ottimale? Arrederemo almeno una parete in modo tale da dotarci di un ottimo sfondo per le riunioni via Zoom?
Il tempo è un dato oggettivo, la qualità delle prestazioni no
Ma non solo: avrà ancora senso abitare nelle città? Il Sole 24Ore riferisce di una ricerca svolta su un campione di mille lavoratori attivi, il 57 per cento dei quali “afferma di essere disposto a trasferirsi dalla città a un’area rurale se potesse continuare a svolgere il proprio lavoro in modo flessibile e da remoto”. Tra l’altro, più di un lavoratore su due (il 53 per cento) “conferma che accetterebbe (o ha già accettato) una diminuzione di stipendio in cambio della possibilità di operare completamente da remoto, senza alcun vincolo geografico”.
E poi: come cambierà il sistema dei trasporti? Ci saranno ancora, propriamente, “ore di punta”? E il pendolarismo?
“Il pendolare è stressato e inquina: più smart working ridurrebbe le emissioni di CO2 di 214 milioni di tonnellate all’anno”, titolava Business Insider nel 2018. Bene: eccoci serviti, adesso. E come reagirà, nel medio periodo, il mercato dell’auto? A proposito: volendo, si può praticare il lavoro agile anche dal camper. Ora ce ne sono di progettati apposta.
Se pensiamo non solo ai consumi, ma anche al sistema delle relazioni, possiamo renderci conto che i mutamenti potrebbero essere ancora più profondi e radicali. Come cambiano le dinamiche familiari in una situazione di lavoro agile? Come (auspicabilmente in modo più paritario) cambia la ripartizione del lavoro domestico? Insomma: chi va a fare la spesa, chi butta la spazzatura, chi porta i figli a scuola, chi lava i piatti, chi cucina e chi pulisce il bagno?
Il quotidiano Avvenire dice che finalmente il divario di genere si sta riducendo. E basterebbe questo dato a farci guardare al lavoro agile come a una gran risorsa positiva per il futuro.
Cambia anche la relazione tra lavoratore e impresa. Se in precedenza il rapporto era, se non equo, chiaro (soldi in cambio di tempo), ora si tratta di soldi in cambio di prestazioni. E di più soldi in cambio non di più tempo (gli straordinari retribuiti) ma in cambio di maggiori o migliori prestazioni.
Ma il tempo è un dato oggettivo, mentre la quantità e la qualità delle prestazioni possono essere più difficili da codificare e valutare, specie se gli obiettivi non sono chiari e condivisi. O se chi è preposto a valutare non è preparato a farlo.
E come influirà, tutto questo, sulle contrattazioni sindacali? Sul linguaggio stesso dei sindacati?
E ancora: poiché cambia il modo di lavorare dei dipendenti pubblici, forse cambierà in meglio anche il rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione, proprio perché il lavoro agile da una parte obbliga i dipendenti a lavorare per obiettivi, dall’altra costringe le istituzioni a riorganizzarsi in modo radicale, ottimizzando le procedure, formalizzando le prestazioni e istituendo indicatori adatti a valutarle. E a migliorare rapidamente e drasticamente le competenze informatiche del personale.
Infine, il lavoro agile influisce su due grandi questioni che riguardano il futuro di tutti noi: la prima è la sostenibilità ambientale. E qui è chiaro che l’impatto può essere in larga misura positivo: si riducono le emissioni, si decongestionano i trasporti pubblici e le città, forse si rianimano i borghi. Ma come la mettiamo, per esempio, con il consumo di suolo? Nel lungo periodo, le mille postazioni d’ufficio che oggi si trovano impilate in un singolo grattacielo centrale peseranno più o meno delle stesse mille postazioni, probabilmente ridotte per estensione, ma sparse in abitazioni private (che comunque un po’ più grandi dovranno essere) distribuite nelle aree periferiche, o nei borghi? Senza contare che gli uffici centralizzati forse si ridurranno, forse modificheranno le proprie funzioni, ma di certo non spariranno. Il dibattito è appena avviato, e a oggi mancano risposte convincenti.
La seconda questione ha due facce: protezione dei dati e sorveglianza. Le conversazioni riservate fatte via Zoom invece che nel chiuso degli uffici resteranno altrettanto riservate? I dati sensibili transitati dal computer di casa saranno protetti come lo erano in precedenza, grazie ai robusti firewall aziendali?
E quanto ci sembrerà intrusiva la presenza delle aziende dentro le nostre case? Il Wall Street Journal propone un elenco dei diritti di chi lavora da remoto. Il primo punto recita: “A ogni lavoratore dovrebbe essere permesso di lavorare a video spento. Questa è casa tua, non è casa del tuo capo”.
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