Il Nagorno Karabakh sembra il Medio Oriente
Prendete un conflitto territoriale di trent’anni fa, nato sulle macerie dell’impero sovietico. Aggiungeteci una dimensione religiosa: da un lato l’Azerbaigian, un paese musulmano a maggioranza sciita; dall’altro l’Armenia, un paese cristiano ortodosso. Poi aggiungete una retorica quasi sacra da entrambi i lati, con i protagonisti che vogliono prendersi una rivincita sulla storia, gli uni sul genocidio armeno commesso dall’impero ottomano, gli altri sulla loro sconfitta negli anni novanta. Siamo nel Caucaso ma si comincia già a sentire aria di Medio Oriente.
L’impressione si fa ancora più forte quando intervengono le potenze straniere. La Russia di Putin? Siamo ancora nello spazio post-sovietico. L’Iran di Khamenei? Uno stato che ha un piede nel Caucaso. La Turchia di Erdoğan? Confina con l’Armenia e ha una lunga relazione con questa regione. L’Israele di Benjamin Netanyahu? È già più difficile da spiegare. Ma le cose si complicano ulteriormente quando si tratta di rispondere alla seguente domanda: cosa ci fanno dei mercenari siriani nel Nagorno Karabakh? Esagerando un po’ la situazione, si potrebbe dire che manca solo di scoprire che l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti finanziano dei mercenari sudanesi per dare man forte all’Armenia e decretare l’ingresso del Caucaso del sud in Medio Oriente. Un Medio Oriente tuttavia leggermente diverso dall’originale, perché l’Azerbaigian sciita è armato da Israele e sostenuto dalla Turchia, mentre l’Iran, che nel Caucaso si presenta quasi come un vicino accomodante, è più vicino all’Armenia.
Tuttavia il ruolo sempre più centrale della Turchia, principale alleato degli azeri, considerati come un popolo fratello, sta cambiando la natura di questo conflitto. Si trattava di una guerra territoriale tipica dell’era post-sovietica ed è diventata un conflitto dal sapore mediorientale, sul punto di trasformarsi in una guerra per procura tra stati i cui calcoli vanno ben oltre questo piccolo territorio, che ha proclamato la sua indipendenza nel 1991 ma che praticamente nessuno stato al mondo riconosce. Non è un caso che Ankara si ritrovi in prima linea, in una fase in cui la Turchia è molto attiva nella sua regione e non solo.
L’interventismo turco cambia le carte in tavola, perché costringe tutti i paesi a rivedere le proprie strategie. L’Iran non può accettare che la Turchia diventi troppo influente nella regione, e che il nazionalismo azero faccia venire strane idee ai 15 milioni di azeri che vivono in Iran. D’altra parte come potrà Israele fornire ancora armi all’Azerbaigian se la Turchia, con cui le relazioni sono tese, si dovesse imporre come nuova potenza di riferimento? Ma la nuova strategia turca complica le cose soprattutto alla Russia. La presenza di Ankara infatti potrebbe spingere Mosca a sostenere con più decisione l’Armenia, nonostante le riserve del Cremlino su un primo ministro democratico come Nikol Pashinyan.
Ankara muove le sue pedine in una zona d’influenza russa. Mosca era diventata l’arbitro di questo conflitto più o meno latente, che relega gli occidentali a un ruolo di secondo piano. Ma gli ultimi sviluppi potrebbero permettere alla Turchia di diventare imprescindibile nel Caucaso e questo obbligherebbe Mosca a passare sistematicamente da Ankara per fare dei passi avanti.
Ed è qui che il Medio Oriente torna di nuovo in scena. Russia e Turchia alternano una logica di cooperazione e rivalità in Siria e in Libia, dove sostengono in ogni occasione schieramenti opposti. Il patrocinio russo-turco ha i suoi vantaggi: Recep Tayyip Erdoğan e Vladimir Putin parlano lo stesso linguaggio e condividono lo stesso desiderio di emarginare i paesi occidentali. Ma ha anche i suoi limiti: le due potenze hanno interessi fondamentalmente divergenti e l’aumento d’influenza dell’una avviene molto spesso a scapito dell’influenza dell’altra.
Il Caucaso potrebbe entrare nell’equazione e diventare un nuovo terreno di scambio tra Mosca e Ankara. Fino a vincolare il destino di questa regione, in una certa misura, a quello del Medio Oriente.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul numero 1379 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati