Vent’anni fa ho fatto una pubblicità. Ma poi ho capito alcune cose sulla pubblicità. Quindici anni fa me la prendevo coi politici. Ma poi ho capito alcune cose sull’economia. Dieci anni fa finivo i miei spettacoli sfasciando un computer a mazzate. Ma poi ho capito alcune cose sui computer e su internet.
Oggi la pubblicità mi sembra uno dei mali peggiori, l’economia la vera padrona della politica e internet uno dei pochi spiragli per difendersi e per ridare alla politica lo spazio che l’economia le ha rubato. Il 26 gennaio ho aperto un blog (un diario pubblico in internet) senza sapere bene cosa fosse.
Sto cominciando a capirlo ora:
beppegrillo.it è diventato in poche settimane il blog in italiano più visitato. In tre mesi il blog ha ricevuto 1,3 milioni di visite di circa 600mila persone diverse. Gli accessi di aprile (un milione) sono stati tra i 30 e i 40mila al giorno, con punte di 55mila. Non so dove ci porterà questa avventura. Ho però il presentimento che ci potrebbe portare lontano.
Una protesta a piazza Tahrir, al Cairo, nel 2012. (A. Dalsh, Reuters/Contrasto)
Se sapremo usarla bene, forse internet potrebbe aiutarci a lasciarci alle spalle un mondo dominato dai manager delle multinazionali, dalla loro pubblicità e dai governi al loro servizio.
Se solo avessi avuto questo blog tre anni fa, quando avvisavo le persone di quello che stava per succedere a Parmalat! Lo dicevo solo nei teatri. Ma se lo avessi scritto in un blog, forse migliaia di risparmiatori avrebbero potuto evitare di farsi rovinare.
Quando Parmalat è implosa, sono venuti a intervistarmi il New York Times e la Cnn. Negli Stati Uniti mi hanno letto più persone di quante mi avevano ascoltato a teatro in Italia. Ma ormai era tardi. Su “Il caso Parmalat e il crepuscolo dell’Italia” ho scritto anche un articolo per Internazionale del 30 febbraio 2004, che ora è su internet. Per Parmalat ormai si trattava di un’autopsia. Ma in quell’articolo ci sono informazioni e sguardi inquietanti su altre aziende arroganti e gonfiate, e purtroppo anche sull’Italia.
Il declino italiano ha radici nei secoli e nei decenni, ma a peggiorare le cose ci si sono messi anche gli uomini della pubblicità: non gli bastavano i nostri soldi, le tangenti e il controllo sull’economia, hanno voluto anche il parlamento e il governo. Come hanno fatto con l’economia e con il paese, anche con il mio articolo si sono montati la testa. Al loro ruolo nell’affossare il futuro dell’Italia hanno dato più peso di quanto avessi fatto io, e mi hanno denunciato. Si vede che ho messo il dito nella piaga. Però mi hanno chiesto solo cinquecentomila euro di danni. Ci sono rimasto male.
Indietro tutta
Quando nel 1993 ho smascherato le truffe telefoniche dell’144, mi hanno denunciato e mi hanno chiesto molti più soldi. Ma hanno dovuto chiudere l’144. Dopo anni di processi, sono stato condannato a pagare una cifra modesta, ma intanto avevo aiutato milioni di persone a difendersi. Le persone per strada mi ringraziano ancora.
Per il processo “Fininvest contro Grillo” il mio blog ha ricevuto centinaia di messaggi di solidarietà: vogliono venire alla prossima udienza, fare una colletta e mandarmi soldi in caso di condanna. La migliore solidarietà però è quella delle tante persone che vengono ai miei spettacoli. Con un po’ dei loro soldi ci pago gli avvocati e le eventuali condanne. Sono le mie spese di produzione.
La denuncia dell’144 l’ho fatta sulla Rai nel 1993, davanti a 13 milioni di spettatori. Ma ora che in televisione non ci posso più andare come faccio a farmi sentire? Con internet, con il mio blog. Non bisogna montarsi la testa. In Italia per ogni persona che accende internet, decine accendono solo la televisione. Ma le cose stanno cambiando in fretta.
Tra i canali di comunicazione, internet è ancora un fenomeno elitario, specialmente in Italia (che è circa al trentesimo posto nel mondo per diffusione di computer e tecnologie informatiche). Decine di altri paesi non solo sono più avanti di noi, ma si sviluppano più velocemente di noi, aumentando il nostro distacco.
Altri paesi che ci seguono, presto ci supereranno. Ma noi siamo in leggera controtendenza: invece di reagire a questo distacco crescente, investiamo quei pochi soldi che abbiamo nelle televisioni e nelle radio commerciali (ormai lo sono tutte), nel digitale terrestre, negli stadi di calcio. Secondo l’Economist, nel 1960 la densità telefonica in Corea del Sud era un decimo della media mondiale, mentre oggi è il triplo della media attuale. La diffusione di internet in Corea del Sud è una delle più alte del mondo, tocca 31 milioni di persone su 48 milioni di abitanti e la maggior parte di loro ha connessioni ad alta velocità.
Tre dubbi
Se oggi in Italia la televisione commerciale predomina rispetto a internet, cosa succederà quando la situazione si invertirà? Molti ritengono che internet diventerà un supercanale di comunicazione, che includerà buona parte delle forme di comunicazione attuali: tv, radio, stampa, editoria, musica, posta, informazione commerciale e altro ancora. Mi sto convincendo anch’io che il futuro prossimo potrebbe essere così.
È per questo che mi sono buttato in quest’avventura aprendo un blog e dedicando a internet i miei spettacoli e la mia trasmissione televisiva del 2005 (Beppegrillo.it), visti rispettivamente da 300mila spettatori in Italia e centomila telespettatori in Svizzera. Da quello che ho imparato finora, su internet ho tre incertezze: il tempo, il potere, la diseguaglianza.
Il tempo. Credo anch’io che internet prenderà il sopravvento sugli altri mezzi di comunicazione. Ma quando? Tra cinque, dieci, vent’anni? Sarà un fenomeno omogeneo? Oppure ci saranno velocità molto diverse per paesi diversi, anche limitandosi ai soli paesi industriali?
Il potere. Chi la farà da padrone in internet? Succederà come con la televisione? Anche la televisione è un’invenzione formidabile: potrebbe migliorare molto l’informazione, la cultura, la partecipazione e la creatività delle persone. Dove era o è ancora libera lo ha fatto e lo sta facendo.
Eppure guardate che porcheria hanno fatto della televisione quei paesi dove questa meraviglia è caduta nelle mani dei pubblicitari, dei mercanti di audience, dei venditori di carta igienica, telefonini, pannolini e automobili.
Succederà lo stesso anche a internet, come le metastasi pubblicitarie che invadono i nostri computer e le nostre email mi fanno temere? Perché anche giornali come Repubblica o l’Unità – non amici del partito della pubblicità – infestano gli schermi dei nostri computer con finestre e finestrelle non richieste, che ci sommergono di pubblicità stupide di prodotti di cui è meglio diffidare?
Oppure guardate Google, un’altra invenzione formidabile. In qualche secondo trova migliaia di riferimenti e collegamenti in tutto il mondo su qualunque argomento; una via di mezzo tra la biblioteca, l’enciclopedia, il dizionario, l’ufficio informazioni, le pagine bianche e gialle, ma esteso a miliardi di fonti mondiali.
Con più moderazione ed eleganza delle sguaiate pubblicità internet italiane anche Google sta contaminandosi di pubblicità. Essendo in pochi anni diventato probabilmente il migliore motore di ricerca del mondo, Google sta cominciando a vendere agli inserzionisti l’eccellenza scientifica e il potenziale di utilità pubblica che ha raggiunto. Per ora la pubblicità su Google si sta affiancando in modo molto discreto alla funzione principale, che – si spera – rimarrà immutata ed eccellente. Ma che succederà dopo?
Vi ricordate Carosello, la prima pubblicità televisiva in Italia? L’esistenza di Carosello all’inizio non aveva cambiato di una virgola la televisione. Ma poi la pubblicità è diventata metastasi. All’inizio erano dieci minuti al giorno, adesso sono venti minuti all’ora.
All’inizio la poca pubblicità si aggiungeva e si adattava a ciò che la televisione era e rimaneva. La pubblicità era uno strumento – un piccolo strumento – della televisione. Oggi la televisione in Italia e in altri paesi – ma non in tutti – si è degradata a strumento della pubblicità: contenuti, forme e programmi sono fatti in funzione della pubblicità. Chi ci garantisce che anche internet e Google non faranno la stessa fine? Se partecipo a questa avventura è perché qualche speranza che internet non faccia la fine della tv ce l’ho. Non so se la natura intrinsecamente pluralista di internet sarà sufficiente a difenderla.
Le menti del marketing sono le più diaboliche in circolazione e riescono a stravolgere quasi tutto ciò che toccano. Con internet però dovranno essere più che diaboliche, perché internet è tecnicamente e socialmente diversa dalla televisione. La televisione è unidirezionale, costosa, concentrata, oligopolista, sempre fondata sulla garanzia del potere politico (quando la tv è buona) o sulla sua complicità (quando è cattiva). Internet invece è a due direzioni: puoi prendere ma puoi anche mettere.
È una rete con milioni di nodi e con centinaia di milioni, presto miliardi, di partecipanti. Teoricamente tutti i partecipanti sono ad armi pari. Di fatto non è così, perché la visibilità e il potere su internet per esempio di Monsanto, Nestlé, Telecom o General Electric, sono superiori a quelli dei cittadini che potrebbero essere sfavoriti o danneggiati dalle aziende.
Eppure su internet al più piccolo dei Davide che vuole confrontarsi con il più grande dei Golia bastano una quantità modesta di tempo, soldi e tecnica, in genere accessibili anche a una singola persona.
Non condivido l’euforia dell’Economist del 2 aprile 2005, secondo cui grazie a internet il consumatore “finalmente prenderà il potere” e diventerà il vero re del mercato. Sarebbe bello se l’economia reale funzionasse come nei manuali: da una parte un cittadino onnisciente, sempre consapevole e artefice del proprio vero interesse, informato sui prodotti quanto lo sono le aziende che li fanno; dall’altra parte aziende che rispettano sempre le leggi e non corrompono mai i politici né i mezzi di comunicazione.
Se l’economia reale funzionasse davvero così, allora il cittadino consumatore dovrebbe essere il re del mercato da più di un secolo. Anche senza internet. Non credo che basterà internet a far smettere all’economia reale di essere un campo di battaglia tra chi ha più potere e soldi e chi ne ha meno, e a farla diventare un perfetto gioco paritario tra bisogni e merci, tra domanda (regina) e offerta (servitrice).
Eppure qualche segno positivo lo colgo anche dalle dodici pagine e dalla copertina che l’Economist ha dedicato all’argomento. Internet sarà una semirivoluzione del sapere e del potere: anche occupandosi solo del rapporto tra internet e commercio – come fa l’Economist – internet sembra capace di cambiare alcuni rapporti di potere.
Dall’inchiesta del settimanale britannico risulta che le più importanti aziende del mondo si stanno accorgendo di due cose: primo, le persone – almeno due su tre, secondo molte inchieste – non ne possono più di essere ingozzate di pubblicità; secondo, proprio per la crescente insofferenza dei cittadini, buona parte dei mille miliardi di dollari che ogni anno si spendono nel mondo in pubblicità e marketing (2003) sono soldi buttati dalla finestra. A causa di quella che l’Economist chiama “la divergenza tra i dollari e le pupille” alcune aziende stanno quindi riducendo la loro quota d’investimenti pubblicitari tradizionali e stanno aumentando i loro investimenti su internet.
Qui però c’è da fare una distinzione fondamentale tra la solita pubblicità autoritaria e invasiva (l’unica novità è che ora invade anche internet) e l’informazione commerciale su richiesta del cittadino. Tra push (spingere) e pull (tirare), come si dice in gergo. Mentre la pubblicità invasiva prima scompare e viene espulsa o filtrata via da internet e meglio è, l’informazione commerciale su richiesta potrebbe aiutare tutti, cittadini e aziende.
Soprattutto potrebbe contribuire, prima di quanto pensiamo, alla scomparsa della pubblicità invasiva. L’alibi di chi ci bombarda con mille miliardi di dollari all’anno è che in mancanza di questo bombardamento a tappeto i cittadini resterebbero all’oscuro dell’esistenza e della qualità delle merci.
Ammettiamo che sia vero. Quando la grande maggioranza dei cittadini potrà con qualche clic di mouse accedere in pochi secondi a tutte le informazioni che desidera sui prodotti che desidera, il baraccone da mille miliardi di dollari lo potremo finalmente chiudere. Potremmo così dedicare a scopi più utili le smisurate risorse divorate dall’industria pubblicitaria: centinaia di milioni di tonnellate di carta, petrolio e altri materiali, miliardi di ore di lavoro e quei milioni di braccia e cervelli oggi dedicati a una attività così inutile e dispendiosa.
I nostri mezzi di comunicazione non sarebbero più comprati e corrotti dagli inserzionisti, le città e il paesaggio non sarebbero più sfigurati dai cartelloni pubblicitari. Se all’attuale bombardamento pubblicitario si aggiunge anche la pubblicità invasiva su internet siamo fritti. Invece non bisogna aggiungere, bisogna sostituire.
La mia proposta: ridurre gradualmente il bombardamento pubblicitario dei cittadini alla stessa velocità con cui aumenta la loro capacità di cercarsi da soli su internet le informazioni che davvero desiderano. Non sarebbe bello se tra qualche anno le aziende ci bombardassero “solo” con cento invece che con mille miliardi di dollari? E se prima di dieci anni smettessero semplicemente di bombardarci e di considerarci bambini deficienti di undici anni?
La diseguaglianza. La terza incertezza che ho su internet è quella sul cosiddetto digital divide, il divario digitale che si sta creando tra chi ha accesso a internet e chi no. L’umanità si sta dividendo in tre classi: un miliardo d’internauti, due o tre miliardi di alfabetizzati e altri due o tre miliardi di analfabeti. La diseguaglianza di opportunità, d’informazione e di potere tra alfabetizzati e analfabeti è enorme. Ancora più grande però rischia di essere il divario tra gli internauti e gli altri. Internet è uno strumento di democrazia, ma deve essere gestito. Vorrei fare tre proposte.
1) La cittadinanza digitale. Quando una persona nasce, i genitori gli danno un nome. L’Onu o l’Unesco dovrebbero dargli il suo indirizzo email e l’accesso a internet per tutta la vita. Gratuito. Come gratuita è la cittadinanza.
2) Computer a basso prezzo. I computer dovrebbero costare meno ed essere sovvenzionati dallo stato. Specialmente i meno abbienti e i loro figli dovrebbero avere aiuti speciali, destinati a evitare il divario digitale.
3) Computer a basso impatto ambientale. I computer diventano obsoleti in pochi mesi. Dovrebbero essere cambiati ogni tre anni. Questa velocità di sviluppo permette miglioramenti straordinari, ma prepara un’apocalisse ambientale. Per fare dieci chili di computer, ci vogliono dieci tonnellate di materiali, che diventano dieci tonnellate di rifiuti. Le aziende produttrici dovrebbero essere responsabili dei computer dalla loro costruzione al loro smaltimento e riprendersi indietro tutto quello che hanno venduto. Li costruirebbero in modo diverso e il consumo di materie prime e di energia si ridurrebbe enormemente.
Tutto questo non accadrà da solo. Ci vuole la politica. Ci vogliono politici che capiscano queste cose e le facciano diventare legge. Da noi ce ne sono pochi, in altri paesi va meglio. In proposito mi hanno colpito due esempi positivi: in Corea del Sud sui nuovi edifici c’è una targa con la certificazione statale della velocità di connessione a internet.
In Svizzera su molti nuovi edifici c’è un marchio certificato dallo stato: “Minergie” attesta che l’edificio è stato costruito con criteri di maggior comfort e di un basso o bassissimo consumo energetico. In Svizzera ce ne sono già 4.500 per un totale di 4,5 milioni di metri quadrati. Ecco, una vera “Casa della libertà” del futuro mi piacerebbe così: energia e informazione certificate dallo stato e nell’interesse dei cittadini. Una casa a buon mercato, che consumi il minimo di energia e che assicuri il massimo dell’accesso all’informazione.
Questo testo è tratto dallo spettacolo Beppegrillo.it
Internazionale, numero 589, 6 maggio 2005
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