C’era una volta il calcio, uno degli sport più belli del mondo. Oggi è diventato una fogna puzzolente. Perché? Il calcio non è come la Coppa America di vela. Per far giocare una squadra bastano undici magliette e calzoncini, undici paia di scarpe e un pallone.

Non servono miliardi né sponsor. Il calcio ha cominciato a imputridire quando da sport è diventato industria. Oggi il fatturato mondiale del calcio è il doppio del fatturato mondiale dei cereali. In Italia i calci al pallone muovono due miliardi di euro, lo 0,14 per cento del pil. Nemmeno Adam Smith avrebbe potuto prevedere una simile cancrena.

Smith e gli altri grandi filosofi-economisti si rivolterebbero nella tomba vedendo come le loro dottrine sono tirate in ballo a sproposito per giustificare qualsiasi perversione speculativa e come la caricatura che si fa delle loro idee è clamorosamente smentita dai fatti. Al grido di “meno stato più mercato” negli ultimi anni si è diffusa la credenza che qualunque cosa diventi migliore se viene privatizzata. Secondo questo credo, privatizzare qualunque cosa automaticamente ne aumenta la qualità e ne abbassa il prezzo.

Se questo è vero in alcuni settori, è clamorosamente falso in altri, specialmente quando si tratta di beni pubblici, sia materiali sia culturali. Tra questi ultimi, il calcio e la televisione sono gli esempi più eclatanti di come la loro brutale privatizzazione sia riuscita in pochi decenni a peggiorarne la qualità e ad aumentarne i costi. Ben peggiori dei folcloristici “espropri proletari”, gli espropri borghesi di beni pubblici hanno portato al loro degrado perché ne hanno stravolto la funzione.

Per cinque secoli la funzione del calcio è stata quella di divertire chi lo pratica e chi lo guarda. Ma anche questo sistema, che funzionava benissimo da cinquecento anni, ha subìto la “grande trasformazione” di cui parlava Karl Polanyi: non è più la società che forgia l’economia per le proprie esigenze, ma è l’economia che forgia la società che gli serve.

Oggi la funzione principale del calcio è diventata quella di arricchire decine di migliaia di parassiti e di vendere merci di ogni tipo: pasta, automobili, birra, telefonini, bottiglie di plastica piene d’acqua. Questa perversione ha moltiplicato per cento il giro di soldi intorno al pallone, rispetto a quello che sarebbe sufficiente per far giocare le squadre. Le conseguenze di questo esproprio sono devastanti.

Primo: oggi la maggioranza di coloro che guadagnano sul calcio non ha mai dato un calcio a un pallone. Su ogni atleta che scende in campo lucrano decine di faccendieri, amministratori, mediatori, finanzieri, pubblicitari, uomini di marketing, azionisti, giornalisti, fabbricanti e venditori di qualunque cosa. D’ogni euro che paghiamo per vedere il calcio, molto più della metà va nelle tasche dei parassiti del pallone. Ciò che si paga allo stadio è la parte più piccola degli introiti. Il resto lo paghiamo tutti, anche chi non guarda il calcio, con il sovrapprezzo della pubblicità, nascosto nei prezzi delle merci che sponsorizzano il calcio.

Secondo: i calciatori guadagnano da dieci a cento volte più di quello che sarebbe ragionevole.

Terzo: la valanga di denaro in cui è sprofondato il calcio è come le sabbie mobili. Risucchia tutto. Visto che la posta in gioco è diventata cento o mille volte più alta di quello che dovrebbe essere, molti tra i parassiti e tra gli atleti si montano la testa e sono pronti a qualunque porcheria.

C’è una sola ricetta per salvare il calcio: decommercializzare. Occorre ridurre di cento volte il denaro che ruota intorno al pallone. Basta con i diritti televisivi privatizzati, basta con gli sponsor. Il calcio è un evento pubblico. Deve trasmetterlo gratis la televisione pubblica. Le squadre e gli atleti dovrebbero essere riconoscenti alla televisione pubblica per la notorietà che gli dà. Dovrebbero pagarla loro, altro che pretendere soldi!

Le squadre devono smettere di essere società per azioni, cattive azioni, come scopriamo in questi giorni. Devono tornare a essere associazioni sportive senza fini di lucro. Le squadre vanno municipalizzate e i giocatori devono essere nati nella città per cui giocano.

I venditori di merci devono ritirarsi dal calcio e smettere di corromperlo. Se non lo fanno c’è una sola soluzione: annotate i nomi di birre, automobili, telefonini, maccheroni e di tutte le altre marche che hanno privatizzato il calcio e non compratele più (1). La stazione centrale di Milano è un esempio folle di privatizzazione nella privatizzazione. Non solo è stata privatizzata la stazione, ma sono stati sottoprivatizzati anche gli spazi che una volta erano dei cittadini.

Cartelloni e impalcature pubblicitarie occupano centinaia di metri del già insufficiente suolo della stazione, ostacolando il movimento dei viaggiatori negli spazi pubblici. A chi si deve questa follia? Alla birra Peroni, che fa una campagna speciale su birra e calcio. Se volete farli smettere, comprate un’altra birra. È ora di prendere a calci chi ha preso a calci il calcio.

(1) Gli sponsor della nazionale di calcio italiana sono: Mapei, Puma, Tim. I fornitori sono: Antonio Amato, Beretta, Bilba, Dolce e Gabbana, EminFlex, EuroFly, Fujifilm, Generali, GreenVision, Nutella, Olidata, Pata, Peroni, Radio Italia, Sharp, Silver Cross, Spazio24, Uliveto, Volkswagen.

Questo testo è tratto dallo spettacolo Incantesimi.

Internazionale, numero 643, 26 maggio 2006

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