Tronchetti Provera si è dimesso da presidente della Telecom un venerdì, qualche minuto prima delle otto di sera, ora di cena. A Milano pioveva, un tempo autunnale, non c’era nessuno in giro per lo sciopero dei mezzi pubblici.

La tristezza era nell’aria. La voce di Aznavour cantava “Com’è triste la borsa a Milano”, ma forse era solo un’eco in Galleria. Il giorno dopo un Tronchetti dimesso, senza cravatta, si aggirava in via della Spiga con i parenti. La sera riceveva nella tribuna d’onore di San Siro attestati di solidarietà simili a condoglianze.

L’Inter, pareggiando con la Sampdoria, aggiungeva una nota di depressione quasi surreale al fine settimana di Tronchetti. Ma come nella migliore tradizione giallistica, bisogna chiedersi: chi è il responsabile della caduta del tronchetto dell’infelicità?

Marco Tronchetti Provera a Istanbul nel 2011. (Murad Sezer, Reuters/Contrasto)

Il nome corso subito sulla bocca di tutti è stato quello di Romano Prodi, per la sua conformazione da maggiordomo ciclista. Il maggiordomo è il primo sospettato. Prodi è però da escludere in quanto persona da sempre non informata sui fatti, e in più con un consigliere, Rovati, che inviando a Tronchetti una memoria “artigianale” ha inguaiato tutto il governo.

La missiva privata, privatissima, ipotizzava un riassetto del gruppo Telecom e il tronchetto – da perfetto uomo d’affari, di quelli che bastava la stretta di mano – l’ha subito passata al Corriere della Sera, il quotidiano indipendente del salotto buono in cui siede Pirelli. Rovati si è dimesso. Prodi dovrà riferire alla camera non si sa bene che cosa, ma un suo silenzio eloquente potrà bastare insieme a un lancio di pomodori. Escluso Prodi, chi rimane?

Per capirlo bisogna tornare indietro nel tempo. Al tempo dell’Ulivo e di D’Alema. Il tempo delle privatizzazioni, il tempo dei “capitani coraggiosi” ma senza una lira. Regnava da poco su Telecom Italia Franco Bernabè, un regnante dignitoso che aveva dato buona prova di sé all’Eni. Telecom non aveva praticamente debiti e generava tutti i giorni denaro sonante.

Telecom possedeva società, immobili, aveva, tanto per dire, la flotta di auto aziendali più grande d’Italia. Un patrimonio costruito con le tasse di generazioni di italiani. D’Alema, allora presidente del consiglio, per motivi che nessuna mente umana (e forse neppure aliena) è in grado di capire, avalla la cessione al duo Colaninno-Gnutti. Colaninno cede Omnitel e lancia un’opa su Telecom.

Il ricavo ottenuto dalla vendita di Omnitel non è certo sufficiente per l’opa, che va sostenuta indebitando l’azienda. Per incanto una Telecom senza debiti si ritrova indebitata fino al collo. Franco Bernabè, che aveva cercato di opporsi sostenendo la fusione con Deutsche Telekom, anche attraverso un confronto durissimo con il merchant banker D’Alema, noto industriale ed economista, deve dimettersi. Da questo momento la sorte della più grande azienda del paese, quella con le migliori prospettive industriali e i maggiori tassi d’innovazione, è segnata.

Mani pubbliche

Inoltre la vendita in blocco di dorsale e telefonia fissa e mobile è un macigno sullo sviluppo del mercato delle telecomunicazioni. Non può infatti esistere un vero mercato se chi possiede la rete eroga anche i servizi. La rete doveva restare in mani pubbliche o, almeno, essere soggetta al controllo dello stato con una partecipazione rilevante.

Colaninno e Gnutti, che sanno fare i loro affari, cercano di ridurre il debito vendendo Tim, o almeno fondendola con Telecom, anticipando di cinque anni le mosse di Tronchetti. Ma non glielo lasciano fare. Colaninno cerca comunque di impostare un piano industriale che però non ha neppure il tempo di vedere la luce. Al governo arriva Berlusconi, e per Colaninno si fa notte.

Nel luglio del 2001 Colaninno va in Argentina per una battuta di caccia e Gnutti, vista l’aria che tira, ne approfitta: incontra Tronchetti e vende. Tronchetti disponeva della liquidità ottenuta dalla vendita della divisione dei cavi per telecomunicazioni Optical Technologies alla statunitense Corning per l’incredibile cifra di settemila miliardi di lire in contanti.

Era il 2000, il periodo della bolla speculativa. Mille miliardi se li spartisce in stock option con Carlo Buora (200) e Giuseppe Morchio (300), all’epoca rispettivamente consigliere d’amministrazione e direttore generale della Pirelli; a lui ne vanno 450.

Tronchetti acquista il controllo di Telecom con le scatole cinesi, in sostanza una serie di società in cui al vertice della catena c’è una piccola azienda che ne controlla una più grande fino ad arrivare alla Telecom. Tronchetti, con lo 0,8 per cento di azioni (è lui il vero piccolo azionista), si ritrova a controllare un impero attraverso la holding Olimpia in compagnia di Benetton, Gnutti, Unicredit e Banca Intesa. I debiti però rimangono, e per ridurli la nuova strategia è semplice, è quella del rigattiere: vendere, esternalizzare.

Seat, Telespazio, Finsiel, una parte di Tim, gli immobili di Telecom vengono venduti per fare cassa. Molte attività del gruppo vengono enucleate e date all’esterno. Ma questo non basta, i margini sulla telefonia fissa e mobile si riducono e il debito non permette di fare gli investimenti necessari. Si rischia l’implosione o la perdita di controllo se subentrassero nuovi soci in Olimpia. Si arriva al 2005, Tronchetti fonde Telecom e Tim con l’acquisto di quest’ultima attraverso un’opa. Telecom si indebita ancora di più, ma accede ai contanti prodotti tutti i giorni dai telefonini.

L’operazione è annunciata come strategica. Una strategia industriale che dura 18 mesi. Poi si torna all’antico. Si divide il fisso dal mobile per venderli a pezzi, uno o entrambi non si sa. Unicredit, Banca Intesa e Hopa lasciano Tronchetti al suo destino. Benetton svaluta le azioni Telecom che al momento dell’acquisto, nel 2001, erano valutate a più di quattro euro e oggi valgono solo la metà.

Tronchetti le azioni le ha invece mantenute a un valore d’affezione, ma le deve finalmente svalutare con effetti a catena sul gruppo Pirelli. Si dimette lasciando 41 miliardi di debiti che restano, escludendo obbligazioni e cartolarizzazioni varie (i pagherò agli investitori), più o meno quelli di Colaninno. Ma con in meno tutte le aziende vendute.

Piccoli azionisti

Il colpevole è quindi chiaro. È il dito medio della mano invisibile del mercato. Che ha colpito tutti coloro che hanno perso il loro posto di lavoro e i loro risparmi investiti in azioni Telecom. È un dito che ci vede bene, benissimo. Per questo ignora manager e azionisti di controllo per i quali la Telecom è stata un grande affare, il migliore della loro vita.

Per Parmalat era venuta a prelevarmi a Nervi la guardia di finanza. Voleva sapere com’ero venuto a conoscenza dei fatti. Avevo una cartellina con scritto sopra “Telecom” per aiutarli a portarsi avanti con il lavoro. Ma non mi presero sul serio, del resto è giusto così, io sono solo un comico. Questa volta mi aspetto un’assunzione alla Consob o alla borsa.

Da comico a consulente finanziario globale. Ho deciso di fare il grande salto. Di controllare la Telecom senza tirare fuori neppure un euro. Un’opa alla genovese. Ho lanciato la “share action” per chiedere la rappresentanza dei piccoli azionisti, andare in assemblea e cacciare a calci nel culo i consiglieri, partendo da quelli indipendenti. Chi vuole partecipare può farlo visitando il mio blog.

Questo testo è tratto dallo spettacolo Incantesimi.

Internazionale, numero 660, 22 settembre 2006

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