Il calcio in Brasile è una passione nazionale. Da decenni domina l’identità collettiva di questo paese che ha più di 200 milioni di abitanti e si trova nel cuore dell’America Latina, una terra dove le razze si mescolano e le grandi ricchezze convivono con la miseria più nera. Eppure, alla vigilia del calcio d’inizio della ventesima Coppa del mondo, il Brasile è travolto dalla rabbia popolare, dagli scioperi e dalle manifestazioni di protesta.

Sette anni fa i brasiliani avevano festeggiato quando al loro paese è stato assegnato il più grande evento sportivo del mondo. Oggi solo il 51 per cento della popolazione è felice di ospitare le partite, e appena un terzo pensa che i Mondiali favoriranno l’economia nazionale.

A cosa è dovuto questo straordinario voltafaccia?

È dovuto al costo della manifestazione (nove miliardi di euro in un paese segnato da grandi mancanze), agli standard di comfort, infrastrutture e trasporti che la Fifa impone ai paesi ospitanti indipendentemente dal loro livello di sviluppo, in poche parole al contrasto tra il lusso dell’evento e la povertà in cui vive un gran numero di brasiliani.

Siamo di fronte a una sorta di scontro di civiltà, al quale si aggiunge la rabbia popolare per i budget sforati, alimentata anche dalle accuse di corruzione che hanno travolto la Fifa. Il calcio è diventato troppo commerciale e neanche in Brasile è riuscito a restare popolare, intoccabile, e al di sopra delle parti. Eppure, nemmeno questa somma di motivi basta a spiegare la recente avversione brasiliana per una coppa che è stata tanto amata.

La vera spiegazione è che a trent’anni dalla fine della dittatura il Brasile ha fatto enormi progressi. I miliardi investiti nei programmi sociali hanno allargato i ranghi della classe media. La democrazia è salda. Gli esuli di ieri sono passati dalle torture agli incarichi governativi, e il paese figura ormai tra gli stati emergenti che avranno un ruolo di primo piano in questo secolo.

Il Brasile, insomma, non è più un paese che può accontentarsi di panem et circenses. Il calore del tifo non compensa più la durezza della quotidianità, e il calcio non è più “l’oppio dei popoli”, poiché sono ormai molti gli abitanti capaci di leggere mezzi d’informazione liberi, di capire le statistiche sulla disuguaglianza e di sapere cos’è un bilancio nazionale e quali dovrebbero essere le priorità di un governo.

Pacifiche o violente, le rivoluzioni si verificano raramente quando la popolazione non ha motivi di sperare. Al contrario, il più delle volte scoppiano dove i programmi economici e sociali sono stati abbastanza efficaci da creare una società che pretende un futuro migliore ed è disposta a protestare per far sentire la sua voce.

Tutto questo sta accadendo oggi in Brasile, ma anche in Turchia e in tutti i paesi dove la classe media si è affermata negli ultimi anni. Presto o tardi accadrà anche in Cina, e il risveglio dei popoli usciti dalla miseria sarà uno dei grandi fenomeni del XXI secolo.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it