Il discorso sullo stato dell’unione pronunciato martedì da Barack Obama fa chiaramente parte di una manovra politica. Chiedendo al congresso di votare un aumento della pressione fiscale sui più ricchi per sostenere le classi medie, il presidente americano aveva in mente i sondaggi sulla popolarità dei due grandi partiti e la battaglia per le presidenziali del 2016.
In sostanza Obama ha detto ai repubblicani di sapere bene che non lo seguiranno, ma li ha invitati a pensare a cosa accadrà tra due anni, perché il calo del tenore di vita delle classi medie (nucleo e maggioranza dell’elettorato) è un problema sempre più pressante negli Stati Uniti e i conservatori potrebbero pagarne le conseguenze se continueranno a difendere le imprese e le famiglie più ricche.
Dato che la costituzione gli impedisce di candidarsi per un terzo mandato, Obama, alle prese con un congresso ostile, ha cercato l’appoggio degli americani contro la maggioranza delle due camere e ha ricordato a tutti che bisogna ancora fare i conti con lui. In questo senso il discorso ha segnato un momento politico importantissimo, ma non è questo il punto fondamentale.
L’aspetto essenziale è che, per la prima volta negli ultimi 35 anni della storia statunitense, un presidente in carica si è schierato (senza dirlo ma lasciandolo capire senza equivoci) contro quel neoliberismo che ha trionfato negli Stati Uniti all’inizio degli anni ottanta prima di imporsi sui cinque continenti.
Come il keynesismo lo era stato dalla fine della seconda guerra mondiale fino all’elezione di Margaret Thatcher, il neoliberismo è diventato l’ideologia dominante, per due motivi. Il primo è che trent’anni fa le classi medie erano entrate in rivolta fiscale e non volevano più finanziare la protezione sociale, gli investimenti pubblici nelle infrastrutture (gli stessi che tra l’altro ne avevano assicurato l’ascesa) e la prosperità delle democrazie occidentali. Questo processo aveva creato alla sinistra problemi che ancora oggi non ha risolto. Il secondo motivo del successo del neoliberismo e dei suoi dogmi – da “lo stato non è la soluzione ma il problema” a “troppe tasse uccidono le tasse” – è stata la fine di un ciclo produttivo. All’epoca le nuove tecnologie prendevano il posto dell’industria pesante e di conseguenza bisognava risparmiare ai nuovi imprenditori eccessivi limiti fiscali e sociali.
Il neoliberismo ha innegabilmente causato una nuova rivoluzione industriale, ma oggi questa rivoluzione è ormai un fatto assodato e le aziende tecnologiche sono diventate giganti mondiali la cui resa non è più dipendente dalle imposte. I danni arrecati dai dogmi thatcheriani sono davanti ai nostri occhi: la disuguaglianza ha raggiunto proporzioni insopportabili, le infrastrutture sono obsolete perfino in Germania e le classi medie soffrono ovunque. Bisogna tornare a una maggiore redistribuzione. Il neoliberismo era decollato negli Stati Uniti, e sempre negli Stati Uniti, nella giornata di martedì, potremmo aver assistito all’affermazione di un nuovo keynesismo.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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