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Ankara gioca la carta dei profughi per ottenere legittimità dall’Europa

Migranti attendono davanti a un centro per registrarsi, dopo essere arrivati via mare dalla Turchia a Mitilene, sull’isola greca di Lesbo. (Spencer Platt, Getty Images)

“There is no such thing as a free lunch”, amava ripetere Margaret Thatcher. La frase vuol dire che tutto ha un costo, come hanno potuto verificare gli europei nel loro rapporto con la Turchia, che grazie alla crisi dei profughi ha avuto l’occasione di battere cassa.

Considerata nel diciannovesimo secolo come “il malato d’Europa” la Turchia si è rivolta verso l’occidente 150 anni fa, quando si chiamava ancora Impero ottomano e controllava un territorio immenso ma in fase di scioglimento. All’epoca l’impero aveva capito che la modernità europea era la sua unica via d’accesso al futuro, ma le grandi potenze europee si erano coalizzate per smembrarlo e dividersi i pezzi.

L’Unione europea potrebbe accelerare il negoziato con una Turchia in piena deriva dispotica

Trasformata in repubblica e ridotta alle sue frontiere attuali, la Turchia aveva comunque intrapreso il cammino della laicità e concesso il diritto di voto alle donne tra le due guerre, prima di presentare nel 1959 la sua candidatura all’ingresso nella Comunità europea.

Ankara ha dovuto attendere quarant’anni prima che l’Unione accettasse, nel 1999, di aprire un negoziato per l’adesione, per poi pentirsene quasi subito. Anche se non c’è mai stata una rottura delle trattative negoziati (teoricamente ancora in corso) Parigi e Berlino hanno opposto il loro “no” categorico, perché l’Unione era in crisi, perché l’opinione pubblica non voleva un nuovo allargamento e soprattutto perché la Turchia era un po’ troppo musulmana.

Poi è cominciata la crisi dei profughi, e improvvisamente l’Europa ha avuto bisogno della Turchia perché nel paese vivono due milioni di rifugiati siriani per i quali le isole greche, vicine alle coste turche, rappresentano la porta d’accesso principale all’Europa. Per regolare questo flusso gli europei sono stati costretti a chiedere l’aiuto di Ankara, e domenica la cancelliera tedesca Angela Merkel è arrivata nella capitale turca per negoziare.

Uno scenario improbabile

I turchi si sono detti pronti ad aiutare gli occidentali, ma in cambio hanno chiesto il finanziamento dei campi profughi, la concessione di visti per lo spazio Schengen, il rilancio del negoziato per l’adesione e l’accettazione della Turchia come paese osservatore ai vertici europei.

È un quid pro quo che Merkel ha sostanzialmente accettato. L’Unione potrebbe dunque accelerare il negoziato con una Turchia in piena deriva dispotica dopo essersi tirata indietro nel momento in cui il paese si stava democratizzando.

Sarebbe un paradosso, ma in realtà questo scenario è molto improbabile. L’Europa aveva bisogno di aiuto, e a dieci giorni da elezioni che si annunciano molto complicate il presidente turco cercava un successo diplomatico. Tutti hanno fatto buon viso a cattivo gioco, ma la verità è che ci vorrà tempo prima che gli attori in gioco riconoscano una realtà innegabile: la Turchia ha bisogno dell’Europa tanto quanto l’Europa ha bisogno della Turchia, perché nel vecchio continente tutto è collegato da vincoli inscindibili.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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