Cuba rischia di fallire se non sceglie la democrazia
Barack Obama è a Cuba. Il presidente degli Stati Uniti è stato ricevuto sull’isola il cui allineamento al campo sovietico aveva portato il mondo a due passi da una guerra nucleare nel 1962. Oggi tutti dicono che la visita di Obama è “storica”, ma lo è davvero?
In realtà non è così, perché questo piccolo stato di 11 milioni di abitanti non conta più molto sulla scena internazionale e dunque la sua riconciliazione con il potente vicino non cambia nulla al livello globale. La guerra fredda è finita da tempo e non ci sono più guerriglie latinoamericane a togliere il sonno a Washington. Cina e Russia hanno abbandonato l’economia pianificata, e il regime cubano (così come quello, ben più pericoloso, della Corea del Nord) è solo un cimelio di un mondo scomparso il cui ricordo svanisce inesorabilmente.
La visita di Obama è “storica” solo per l’abuso di retorica, ma al contempo pone un interrogativo concreto, sul modo in cui l’isola abbandonerà il comunismo. Al momento non possiamo dare una risposta a questa domanda.
Costretto ad aprirsi
L’unica certezza è che non ci siamo ancora arrivati. Per rendersene conto basta considerare che il regime ha vietato ai cubani di scendere in strada in massa lungo il percorso del presidente statunitense, nel timore che fosse acclamato e che la sua presenza diventasse una sorta di referendum.
Il partito comunista cubano tiene ben stretto il controllo, ma se l’apparato repressivo è solido l’economia lo è molto meno, e non c’è più l’alleato sovietico a cui chiedere aiuto. Se non vuole andare in fallimento, il regime sarà costretto ad aprirsi, ed è quello che sta facendo riavvicinandosi agli Stati Uniti e autorizzando, sessant’anni dopo l’Ungheria comunista, la creazione di piccole imprese private nel settore dei servizi. Il problema è che il futuro appare ancora poco chiaro.
A Cuba l’apertura economica finirà per alimentare la richiesta di una libertà politica
Lo scenario più probabile è che il regime cerchi di mantenere la dittatura del partito unico pur procedendo verso una privatizzazione dell’economia, un po’ come accade in Cina. Ma la grande differenza con la Cina è che Cuba si trova a poche miglia dagli Stati Uniti, dalla loro potenza industriale e dai loro 320 milioni di abitanti.
Di conseguenza a Cuba l’apertura economica finirà per alimentare la richiesta di una libertà politica, perché la presenza di numerosi americani, tra cui molti esuli cubani rientrati dagli Stati Uniti con denaro da investire e voglia di rivincita, creerà una contro-società la cui agiatezza e stile di vita saranno molto più percepibili di quanto non lo siano quelli occidentali in Cina.
Questa considerazione meramente geografica ci porta a pensare che l’apertura economica di Cuba sfocerà inevitabilmente in un’americanizzazione dell’isola. Il modello cinese rappresenterà solo un momento. Se questo regime vuole davvero organizzare una transizione morbida, l’unica soluzione è quella di concordare con la chiesa e gli oppositori l’organizzazione di elezioni libere che permettano di voltare pagina senza violenze né vendette. Sarebbe un’evoluzione ideale, ma per il momento è solo un’utopia.
(Traduzione di Andrea Sparacino)