Contro i jihadisti in Africa nasce il gruppo dei cinque
Ancora non è detto che funzioni. Resta da capire se i cinque paesi del Sahel – Mali, Mauritania, Ciad, Niger e Burkina Faso – sapranno creare la forza regionale che hanno battezzato il 2 luglio a Bamako alla presenza di Emmanuel Macron. Per il momento abbiamo una necessità e una speranza.
Questi cinque paesi dovrebbero unire le loro forze, perché i diversi movimenti jihadisti della regione subsahariana non si concentrano più sul Mali, dove devono affrontare l’operazione francese Barkhane e la Minusma, la forza di intervento dell’Onu. I jihadisti hanno preso di mira i paesi limitrofi. Il problema è diventato regionale, dunque ha bisogno di una risposta regionale. Questa è la necessità.
La speranza è che i cinque paesi in questione – chiamiamolo G5 Sahel – abbiano compreso la posta in gioco. Ognuno dei rispettivi governi verserà dieci milioni di euro e doterà il proprio esercito di un comando comune per organizzare questa forza internazionale antijihadista. Sono gli unici a poterla creare, perché la Francia non può occuparsi di tutto e l’Onu ha troppe difficoltà economiche per sostituirsi a loro in un’operazione che in quel caso sarebbe molto più costosa.
Dal 2 luglio ci sono sul tavolo i 50 milioni del G5 Sahel, i 50 milioni stanziati dall’Unione europea e gli otto milioni che la Francia verserà in aggiunta al finanziamento dell’operazione Barkhane. La somma complessiva rappresenta appena un quarto delle risorse che bisognerà impiegare, ma se questa forza dimostrerà di essere efficace si potranno trovare altri finanziatori, nell’Onu come in Europa, dove soprattutto la Germania potrebbe annunciare lo sblocco dei fondi per il Mali in occasione del consiglio dei ministri franco-tedesco del prossimo 13 luglio.
Gli europei affrontano preventivamente quello che diventerà il nuovo problema jihadista
In questo modo si apre (o meglio, potrebbe aprirsi) un circolo virtuoso, per tre ragioni.
La prima è che questi paesi africani prendono la situazione in mano anziché affidarsi alla Francia. La seconda è che l’Unione europea abbozza per la prima volta una politica estera e una difesa comune, perché i paesi che la compongono hanno capito che in Sahel è in gioco la loro sicurezza e non solo quella della Francia. La terza è che in questo modo gli europei affrontano preventivamente quello che diventerà il nuovo problema jihadista quando i combattenti curdi e gli attacchi della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti avranno liberato Mosul e Raqqa, bastioni del gruppo Stato islamico (Is) in Iraq e Siria. Quel giorno l’Is in rotta cercherà di rifarsi nel Sahel, ma se le decisioni prese il 2 luglio avranno un effetto il gruppo si scontrerà con una solida resistenza.
Staremo a vedere. Quanto meno la strada intrapresa è quella giusta, e magari – perché una speranza tira l’altra – gli europei si decideranno anche a coordinare l’accoglienza dei profughi anziché continuare a lasciare sostanzialmente sola l’Italia davanti a questo dramma. Un primo dialogo si è aperto il 2 luglio a Parigi, e anche in questo caso qualcosa sembra muoversi.
(Traduzione di Andrea Sparacino)