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Donald Trump per ora resta fuori dal Russiagate

Paul Manafort (a destra) a Washington, il 30 ottobre 2017. (Win McNamee, Getty Images)

Ha tutti i motivi per sentirsi sollevato. Le prime conclusioni dell’inchiesta sull’ingerenza russa nelle presidenziali americane del 2016 erano state appena rese note quando Donald Trump ha sottolineato con entusiasmo che il procuratore speciale ed ex capo dell’Fbi Robert Mueller non l’ha assolutamente chiamato in causa.

Non esiste “nessuna collusione” ha twittato in maiuscolo, intendendo nessuna accusa di collusione tra il Cremlino e il presidente. Ma il problema è un altro: ciò che è vero oggi non sarà necessariamente vero domani. A questo punto dell’inchiesta non esistono prove irrefutabili contro il candidato Trump, nessuna smoking gun (pistola fumante), come dicono gli americani. Ma è altrettanto vero che nessun autore di romanzi di spionaggio avrebbe potuto immaginare ciò che è stato rivelato o confermato.

Incriminato ieri per cospirazione contro gli Stati Uniti, riciclaggio di denaro e altre dieci violazioni della legge, Paul Manafort, l’uomo che ha diretto la campagna di Donald Trump da giugno ad agosto del 2016, ha effettivamente lavorato per conto di uomini vicini alla Russia in Ucraina, l’ex presidente Viktor Janukovič e il suo Partito delle regioni, di cui era un lobbista non dichiarato a Washington. Questo lavoro avrebbe permesso a Manafort di evadere 18 milioni dal fisco grazie a depositi in paradisi fiscali.

Nelle mani dei servizi segreti russi
È evidente che in questo modo l’ex direttore della campagna di Donald Trump si è messo nelle mani dei servizi segreti russi, come è evidente che l’unico modo che ha di evitare una lunga condanna carceraria è vuotare il sacco, se non vuole che a farlo sia il suo socio Rick Gates, anche lui incriminato e messo agli arresti domiciliari.

Il procuratore Mueller è nelle condizioni di fare pressione su due testimoni che potrebbero essere estremamente imbarazzanti per il presidente americano. Ma non è tutto. George Papadopoulos, terza persona incriminata il 30 ottobre, è stato uno dei cinque consulenti di politica estera del candidato Trump, ed è durante l’esercizio di questa funzione che ha tenuto stretti contatti con alcuni russi che gli hanno promesso documenti compromettenti per Hillary Clinton. Contrariamente agli altri due accusati, Papadopoulos si è dichiarato colpevole e non smette di parlare.

Forse non avremo mai la prova di una collusione diretta tra Donald Trump e il Cremlino, ma l’ombra russa avvolge innegabilmente la campagna elettorale di Trump. La situazione potrebbe rapidamente peggiorare, e presto l’alternativa sarà chiara: o il candidato sapeva di essere circondato da uomini controllati dai russi, considerandoli una risorsa contro la sua avversaria democratica, o non sapeva niente e non ha visto, e in questo caso sarebbe evidente che una persona così cieca non dovrebbe occupare la Casa Bianca.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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