E invece sì. Diversamente da quanto sostengono in molti, quella a cui abbiamo assistito è stata una vera ondata democratica, perché con un tasso di disoccupazione così basso e un’economia così in salute Donald Trump non avrebbe mai dovuto perdere la camera dei rappresentanti.

Al contrario, avrebbe dovuto ottenere un plebiscito, guadagnando voti rispetto alle presidenziali del 2016. Se non è stato così, è perché moltissimi statunitensi hanno voluto punire il modo in cui quest’uomo esercita le sue funzioni, la sua deliberata volgarità, le sue bugie incessanti, la sua misoginia, il suo strizzare l’occhio all’estrema destra più violenta, l’evidente sfondo razzista delle sue dichiarazioni, la crudeltà con cui ha strappato i figli dei migranti clandestini dalle loro famiglie e forse anche l’insolenza con cui ha trattato il fronte europeo dell’Alleanza atlantica.

Chiaramente il 6 novembre non sarà ricordato come un giorno di gloria per Donald Trump, ma è altrettanto vero che nemmeno i democratici hanno troppi motivi per esultare. Con un uomo simile alla Casa Bianca, così sprezzante nei confronti delle minoranze e delle donne, così ossessionato dalla sua lotta contro l’Obamacare (la copertura sanitaria a cui molti americani non vorrebbero più rinunciare), la sinistra – o i liberal come li chiamano negli Stati Uniti – avrebbe dovuto conquistare non una camera, ma entrambe, vincendo un numero maggiore di sfide per il senato.

C’è una spiegazione chiara per questo fallimento a metà.

Gli elettori più giovani vogliono una svolta a sinistra mentre la maggioranza è incline a un riavvicinamento con i centristi

Non soltanto i democratici non hanno un leader, un uomo o una donna la cui candidatura alle presidenziali del 2020 abbia la forza dell’evidenza, ma non hanno nemmeno una linea né un programma né una posizione precisa. Non sono uguali a Trump, questo è evidente, ma vogliono davvero diventare dei socialdemocratici all’europea come chiedeva Bernie Sanders nel 2016, o dei “socialisti” come si definiscono alcuni dei più giovani candidati eletti mercoledì?

Oppure vogliono continuare a giocare la carta centrista e social-liberale che era stata di Bill Clinton e poi riproposta con successo in Europa da Tony Blair e Gerhard Schröder?

Al momento non è chiaro. Per i democratici sarà difficile scegliere la strada da intraprendere, perché gli elettori più giovani vogliono una svolta a sinistra mentre la maggioranza è probabilmente incline (ma non è certo) a un riavvicinamento con gli “indecisi” (i centristi americani) e con i repubblicani che disprezzano la deriva del loro partito.

Come la sinistra europea, anche il Partito democratico statunitense deve reinventarsi.

Ma per farlo avrà appena due anni di tempo, e sarà tanto più difficile ora che Trump, esattamente come le nuove estreme destre europee, si è proposto come difensore della classe operaia vittima della deindustrializzazione, criticando la delocalizzazione e allontanandosi dal libero scambio. Quando il presidente che taglia le tasse conquistando Wall street attacca la Cina al grido di “prima l’America!”, inevitabilmente strappa voti, tantissimi voti ai democratici, a un partito che oggi è più vicino all’alta tecnologia che alle miniere di carbone e agli impianti siderurgici, più alle classi medie urbane che agli emarginati dalla mondializzazione.

Enormemente incerta, la prossima battaglia si è aperta ieri, e lo scontro sarà talmente duro che nei prossimi mesi gli alleati degli Stati Uniti non potranno fare molto affidamento su Washington.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it