La tempesta potrebbe scemare, ma potrebbe anche rimbalzare e amplificarsi. È ancora presto per capire come evolverà la situazione, ma possiamo già trarre tre insegnamenti dalle manifestazioni della settimana scorsa in Ungheria.
Il primo è che il rifiuto di qualsiasi forma d’immigrazione si è rivelato un’arma a doppio taglio per Viktor Orbán. L’atteggiamento inflessibile ha inizialmente rafforzato la popolarità del primo ministro, in declino prima della crisi del 2015, permettendogli di conquistare più del 49 per cento dei voti alle legislative di aprile e assicurarsi una maggioranza dei due terzi in parlamento, sufficiente per modificare la costituzione a suo piacimento.
Per un uomo che già controllava gran parte dei mezzi d’informazione e delle grandi imprese, era la ricetta vincente. Ma è anche vero che l’Ungheria si sta spopolando e perde i suoi cittadini più qualificati a causa dell’emigrazione. Il tasso di natalità è basso e i giovani diplomati e laureati vanno a vivere e lavorare altrove, sia perché trovano salari migliori in Austria e Germania sia perché mal sopportano il regime autoritario di Orbán.
Il nuovo schiavismo
L’Ungheria rifiuta l’immigrazione ma non sa conservare la sua manodopera qualificata, ed è per questo che il primo ministro ha fatto approvare una legge che permette ai datori di lavoro di chiedere ai dipendenti fino a 400 ore di straordinari l’anno, tra l’altro pagabili entro 36 mesi.
È un modo per cercare di mantenere attive le fabbriche e attirare investimenti dall’estero, a cominciare dall’industria automobilistica tedesca, ed è facile capire perché Viktor Orbán e il suo partito Fidesz abbiano deciso di intraprendere questa strada. Ma la legge ha anche spinto i lavoratori a scendere in piazza per protestare contro quello che è stato immediatamente definito “schiavismo”.
La mossa del primo ministro, insomma, gli si è ritorta contro. Questa evoluzione colpisce tanto di più sapendo che diversi mesi fa alcuni economisti polacchi avevano messo in guardia il proprio governo contro la trappola del rifiuto dell’immigrazione.
Viktor Orbán è al potere da quasi nove anni. Se il potere logora, il potere assoluto logora in modo assoluto
Il secondo insegnamento da trarre da queste manifestazioni è che l’autoritarismo del regime ungherese ha fatto convergere tutte le componenti dell’opposizione in un fronte compatto di resistenza contro Orbán. Dalla nuova estrema destra ai socialisti, passando per i Verdi e tutte le altre correnti di destra e sinistra, “l’altra Ungheria” (circa metà della popolazione) è scesa in piazza domenica a Budapest, con grandi cortei fino a quindicimila persone.
Per una popolazione di meno di dieci milioni di abitanti, si tratta di numeri significativi. E lo sono tanto più considerando che il malcontento riguarda anche una nuova legge liberticida e che alcuni deputati hanno partecipato alle manifestazioni prima di arrivare alla sede della televisione pubblica chiedendo (invano) di prendere la parola.
Il terzo insegnamento da trarre dalle recenti evoluzioni è che il regime di Orbán è indebolito, o comunque meno solido di quanto sembrasse. Il primo ministro controlla tutto, ma dato che incarna il potere qualsiasi contestazione lo minaccia immediatamente.
Basta un niente, perché in Ungheria esiste solo lui, ed è per questo che ha perso consensi nel 2012 davanti alle manifestazioni studentesche, nel 2014 dopo un’ondata di proteste contro la tassazione di internet, nel 2016 per la collera scatenata dall’imposizione della chiusura domenicale delle attività commerciali e infine nel 2017 dopo la raccolta di 250mila firme contro l’organizzazione delle Olimpiadi a Budapest nel 2024. Viktor Orbán è al potere da quasi nove anni. Se il potere logora, il potere assoluto logora in modo assoluto.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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