Scrittori, volontari delle ong, musicisti rock, ambientalisti e studenti mi mandano email in cui mi chiedono: le dispiacerebbe dare un’occhiata al mio saggio, opuscolo, racconto, progetto, haiku, proposta di adozione, fotografia di una vera suocera africana? Tutti quelli che lo fanno sono bianchi.

Nessun cinese me lo chiede, nessun cubano, nessun nero, marrone, beige, color caffè, cappuccino o mulatto. “Come scrivere d’Africa”, l’articolo che ho scritto per la rivista Granta nel 2005, doveva essere un modo per sfogarmi, non un faro nella notte. Ora la gente mi chiede il permesso di scrivere sull’Africa. Vuole sapere il mio parere, sapere come se l’è cavata. Sia sincero, dice.

Quasi quasi mi compro un timbro. Mi immagino ai confini virtuali dell’Africa, come un gendarme nero con un timbro in mano che esamina le domande di ingresso: SÌ, significa “Può entrare, paghi 100 dollari”; NO, significa “Arrestatelo e poi rimandatelo indietro”. È quasi un piacere sadomaso.

Arrivano strisciando dai posti più improbabili, e chiedono di essere frustati. Sembrano quasi delusi quando non lo faccio. Ma ogni tanto li frusto. Bono mi ha mandato un libro di poesie. Qualcuno ha scritto un saggio intitolato: Come scrivere d’Afghanistan.

Ho stretto la mano a ben due presidenti europei, che hanno letto il mio articolo e hanno scosso la testa: che peccato, è un vero peccato. A Francoforte ho fumato una sigaretta con le guardie del corpo del presidente nigeriano Yar Adua e mi hanno detto che non gli piacciono le palestre di Abuja perché ci vanno le mogli dei potenti e creano un sacco di problemi. Preferivano le palestre degli alberghi europei. Ma le sigarette tedesche non erano buone come quelle nigeriane.

La verdura tedesca non era buona come quella nigeriana. La birra tedesca, a guardarla bene, sotto la schiuma, non era leggera e dorata come quella nigeriana. Insomma, hanno detto spegnendo la sigaretta avvolti nel profumo di acqua di colonia francese, la Nigeria è il posto migliore del mondo. È mai stato ad Abuja? Mi hanno chiesto. No, ho risposto. Abuja è ultramoderna, hanno detto, e tutti abbiamo guardato i vecchi palazzi umidi e grigi che avevamo davanti.

“Come scrivere d’Africa” è nato da un’email. In un momento di rabbia – forse anche di calo di zuccheri, è un problema di famiglia – ho passato una notte nel mio appartamento da studente a Norwich, in Inghilterra, a scrivere al direttore di Granta. Volevo rispondere al suo numero sull’Africa, popolato di tutti i cliché letterari che gli africani conoscono bene, una specie di “Hit parade dei Cuori di tenebra del cazzo”. Non era stato lo squallore a colpirmi, ma la stupidità.

Non c’era niente di nuovo, nessuna profondità, solo “reportage” – oddio, ma pensa un po’ – come se l’Africa e gli africani fossero esclusi dalla conversazione, se non vivessero in Inghilterra nel palazzo di fronte alla redazione di Granta. No, noi eravamo “laggiù”, dove uomini coraggiosi in sahariana potevano andare e raccogliere la nostra testimonianza. Al diavolo. Così ho scritto una lunga email al direttore in cui c’era di tutto.

Con mia grande sorpresa, Granta mi ha risposto subito. Il suo direttore, Ian Jack, rinnegava il numero sull’Africa, lo avevano realizzato prima che arrivasse lui, ha detto. Circa un anno dopo, mi ha chiamato un altro redattore della rivista. Stavano preparando un nuovo numero sull’Africa e volevano un mio contributo. Certo, certo, ho detto io. Poi me ne sono scordato.

E quando me ne sono ricordato mi sono sentito in colpa, ho sentito il peso di un intero continente sulle mie spalle. Ero bloccato. Ho bevuto una birra keniana e finalmente ho scritto qualcosa su Bob Geldof. Era una schifezza, ha detto il redattore: non ha usato proprio quella parola ma il concetto era chiaro. E aveva ragione. Così mi sono rimesso al lavoro.

È arrivata la scadenza e io ero occupato a scrivere un racconto e un romanzo. Il redattore mi chiama per farmi una proposta: perché non pubblichiamo la tua lunga email vaneggiante? Cioè, una parte. Certo, dico io, distrattamente. Me ne manda una bozza. Accidenti, penso io, distrattamente. Taglia e incolla, taglia e incolla. Qualche ritocco qui e là. Spedita. Ci è voluta un’ora. Il numero è uscito, l’articolo è andato online.

È diventato l’articolo più inoltrato della storia di Granta. Ho cominciato a ricevere messaggi da amici e sconosciuti. Citavano le mie parole come se fossero qualcosa che mi poteva interessare, come se non le avessi scritte io. Ero diventato spam. Hanno cominciato a invitarmi a conferenze, riunioni, panel. Mi sono arrivate lettere.

Ora che sono diventato la coscienza dell’Africa, posso ammonirvi e darvi l’assoluzione. Se fossi stato più furbo, avrei aspettato qualche anno e creato un’applicazione per l’iPhone: un breve articolo satirico su come scrivere sull’Africa ogni giorno, interattivo e adattabile, a soli 99 centesimi. Al diavolo Granta… grazie Granta.

Stavo lavorando al mio romanzo, quando all’improvviso mi sono ritrovato a bere vodka al peperoncino con il redattore della rivista. E prima di accorgermene, mi ero impegnato a scrivere il seguito di “Come scrivere d’Africa”. D’accordo, ho detto distrattamente. Ed eccolo qui.

*Traduzione di Bruna Tortorella.

Internazionale, numero 861, 27 agosto 2010*

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