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La Terra senza di noi

Gabriella Giandelli

Questo articolo è uscito il 12 gennaio 2007 nel numero 675 di Internazionale, a pagina 38. L’originale era uscito su New Scientist.

Gli esseri umani sono senza dubbio la specie più invadente mai vissuta sulla Terra. In poche migliaia di anni ci siamo appropriati di più di un terzo delle terre emerse, occupandole con le nostre città, i nostri campi e i nostri pascoli. Secondo alcune stime, ormai controlliamo il 40 per cento della capacità produttiva del pianeta. E ci stiamo lasciando alle spalle un bel disastro: praterie arate, foreste rase al suolo, falde acquifere prosciugate, scorie nucleari, inquinamento chimico, specie invasive, estinzioni di massa. E ora anche lo spettro del cambiamento climatico. Se potessero, le altre specie con cui dividiamo la Terra ci caccerebbero senza esitare. E se il loro desiderio si avverasse? Cosa succederebbe se tutti gli esseri umani che vivono sulla Terra – almeno 6,5 miliardi – fossero deportati in un campo di rieducazione in una galassia lontana?

Escludiamo l’idea di un flagello che ci spazzi via, se non altro per evitare la complicazione di tutti quei cadaveri. Abbandonata di nuovo a se stessa, la natura comincerebbe a riprendersi il pianeta: i campi e i pascoli tornerebbero a essere praterie e foreste, l’aria e l’acqua si purificherebbero dalle sostanze inquinanti e le strade e le città diventerebbero polvere.

“La triste verità è che il paesaggio migliorerebbe notevolmente una volta usciti di scena gli esseri umani”, sostiene John Orrock, un biologo della conservazione del National center for ecological analysis and synthesis di Santa Barbara, in California. Ma i segni dell’umanità sparirebbero del tutto o abbiamo modificato a tal punto la Terra che anche tra un milione di anni si troverebbero le tracce di una società industriale ormai estinta?

Inquinamento luminoso
Se domani non ci fossero più esseri umani, il cambiamento sarebbe subito evidente perfino dall’orbita terrestre: il bagliore delle luci artificiali che illuminano le nostre notti comincerebbe lentamente a spegnersi. Osservare la distribuzione della luce artificiale è il modo migliore per rendersi conto di quanto dominiamo la Terra. Secondo alcune stime, l’85 per cento del cielo europeo è inquinato dalla luce. Gli Stati Uniti sono al 62 per cento e il Giappone al 98,5 per cento. In paesi come la Germania, l’Austria, il Belgio e i Paesi Bassi non c’è più cielo notturno privo di inquinamento luminoso.

“In poco tempo – uno o due giorni – comincerebbero i primi blackout, perché nessuno alimenterebbe più le centrali”, spiega Gordon Masterton, presidente dell’Istituto di ingegneria civile di Londra. Le fonti di energia rinnovabili come le turbine a vento e i pannelli solari manterrebbero automaticamente accese un po’ di luci, ma senza la manutenzione della rete di distribuzione anche quelle sarebbero fuori uso in poche settimane. Senza elettricità si fermerebbero le pompe idrauliche, gli impianti per il trattamento dei liquami e tutti gli altri macchinari della società moderna.

La mancanza di manutenzione renderebbe fatiscenti edifici, strade, ponti e altre strutture. Le costruzioni moderne sono progettate per durare in media sessant’anni – i ponti arrivano a 120 anni e le dighe a 250 – ma questa durata presume che qualcuno li mantenga puliti, blocchi le perdite e risolva eventuali problemi alle fondamenta. Senza le persone che svolgono questi compiti apparentemente insignificanti le cose andrebbero rapidamente a rotoli. Un buon esempio è la città di Pripjat. Questo centro nelle vicinanze di Cernobyl, in Ucraina, fu abbandonato dopo il disastro nucleare di vent’anni fa ed è rimasto deserto.

“Da lontano si ha ancora l’impressione che sia una città viva, ma gli edifici stanno lentamente andando in rovina”, spiega Ronald Chesser, un biologo dell’ambiente del Politecnico di Lubbock, nel Texas, che ha lavorato a lungo nella zona di esclusione intorno a Cernobyl. “L’elemento più invasivo sono le piante: le loro radici si sono infilate nel cemento, dietro i mattoni, negli stipiti delle porte, e stanno rapidamente distruggendo le strutture. Non ci rendiamo conto di quanto sia importante intervenire nelle nostre case per evitare fenomeni di questo tipo. È incredibile vedere come le piante riescono a invadere ogni più piccolo angolo”.

Se nessuno si occupasse più delle riparazioni, ogni temporale, inondazione o gelata si porterebbe via un pezzo degli edifici abbandonati, e nel giro di qualche decennio i tetti comincerebbero a cedere. A Pripjat sta già succedendo. Le case di legno e altre strutture di piccole dimensioni, costruite con criteri meno rigorosi, sarebbero le prime a crollare. Subito dopo toccherebbe quasi certamente alle strutture di vetro che oggi apprezziamo tanto. “Gli eleganti ponti sospesi e gli edifici dalle forme leggere risulterebbero più vulnerabili”, aggiunge Masterton. “Sono meno resistenti degli edifici costruiti con mattoni, archi e volte”. Ma anche se le costruzioni crollassero, le loro rovine – soprattutto quelle di pietra e cemento – probabilmente resterebbero lì per migliaia di anni.

“Ci sono ancora i resti di civiltà vissute tremila anni fa”, osserva Masterton. “I segni di quello che abbiamo creato resterebbero per molti millenni. Una strada in calcestruzzo potrebbe sgretolarsi in diversi punti, ma ci metterebbe molto tempo prima di diventare invisibile”. La mancanza di manutenzione avrebbe conseguenze particolarmente drammatiche per le 430 centrali nucleari attualmente in funzione nel mondo. Le scorie nucleari già depositate in contenitori di cemento e metallo raffreddato ad aria non creerebbero problemi. Quei contenitori sono progettati per sopravvivere a migliaia di anni di oblio, alla fine dei quali il loro tasso di radioattività – essenzialmente sotto forma di cesio 137 e stronzio 90 – sarà diminuito di mille volte, spiega Rodney Ewing, un geologo dell’università del Michigan specializzato nella gestione delle scorie radioattive.

Per i reattori attivi la questione non è così semplice: se l’acqua di raffreddamento cominciasse a evaporare o a fuoriuscire a causa di qualche perdita, probabilmente il nocciolo del reattore potrebbe prendere fuoco o fondersi, emettendo grandi quantità di radiazioni. L’effetto di queste emissioni, tuttavia, potrebbe essere meno disastroso di quanto molti pensano. La zona intorno a Cernobyl ha permesso di verificare con quanta rapidità la natura è capace di riprendersi i suoi spazi. “Mi aspettavo di trovare un deserto nucleare”, racconta Chesser, “e invece sono rimasto sorpreso. Nella zona di esclusione si è sviluppato un ecosistema molto ricco”.

Nei primi anni dopo l’evacuazione i ratti e i topi si erano moltiplicati, e branchi di cani selvatici avevano invaso l’area nonostante gli sforzi per sterminarli. Ma l’era di questi animali non è durata a lungo, e la fauna locale ha già cominciato a prendere il loro posto. I cinghiali sono da 10 a 15 volte più numerosi all’interno della zona di esclusione rispetto al territorio circostante; i grandi predatori stanno tornando in massa. “Non ho mai visto un lupo in tutta l’Ucraina. Lì dentro, invece, ce ne sono molti”, spiega Chesser.

Rapidità di ripresa
Senza gli esseri umani anche nella maggior parte degli altri ecosistemi la natura dovrebbe riprendersi i suoi spazi, ma la rapidità potrebbe variare. Nelle regioni calde e umide, dove gli ecosistemi tendono a evolversi più rapidamente, il ritorno alle origini richiederebbe meno tempo rispetto alle regioni più fredde e aride. Ovviamente nelle zone ancora ricche di specie indigene la ripresa sarebbe più veloce rispetto ai sistemi che hanno subìto alterazioni più gravi. Nelle foreste boreali dell’Alberta settentrionale, in Canada, l’intervento umano è consistito essenzialmente nella costruzione di strade e condutture e nell’occupazione di piccole strisce di terreno sottratte alle foreste.

Se scomparissero gli esseri umani, le foreste ricoprirebbero l’80 per cento di queste superfici nel giro di una cinquantina di anni, e dopo due secoli non ne resterebbe più del 5 per cento, secondo le simulazioni di Brad Stelfox, un ecologo indipendente di Bragg Creek, nello stato di Alberta. Nei luoghi in cui le foreste originarie sono state sostituite da un’unica specie di alberi, invece, ci potrebbero volere diversi secoli prima che tutto torni allo stato naturale. Anche le distese di terreno coltivate a riso, grano e granturco in tutto il mondo potrebbero impiegare parecchio tempo prima di ospitare nuovamente specie indigene. Alcuni ecosistemi, tuttavia, potrebbero non tornare mai come prima perché hanno raggiunto una nuova “condizione di stabilità”.

Alle Hawaii , per esempio, le piante introdotte dagli esseri umani spesso generano incendi, e questo impedirebbe alle foreste originarie di reinsediarsi anche se avessero la libertà di farlo, spiega David Wilcove, un biologo della conservazione dell’università di Princeton. Anche i discendenti selvatici di animali e piante domestici probabilmente si aggiungerebbero in modo permanente a molti ecosistemi. In alcuni posti è quanto hanno già fatto cavalli e maiali selvatici. Le specie altamente addomesticate come i bovini, i cani e il frumento, che sono il prodotto di secoli di selezioni e incroci, grazie all’accoppiamento casuale probabilmente tornerebbero ad assumere forme più resistenti e meno specializzate.

“Se l’uomo dovesse scomparire, vi aspettereste di vedere branchi di barboncini che vagano per le praterie?”, chiede Chesser. Naturalmente no, ma al loro posto ci sarebbero probabilmente branchi di robusti bastardi. Perfino i bovini e gli altri tipi di bestiame allevati per ottenere carne e latte hanno molte chance di sopravvivere, anche se in numero molto più ridotto. E i prodotti agricoli geneticamente modificati? Ad agosto Jay Reichman e i suoi colleghi del laboratorio dell’Agenzia per la protezione ambientale (Epa) di Corvallis, nell’Oregon, hanno reso noto che si è insediata nel deserto una versione geneticamente modificata della pianta perenne Agrostis stolonifera (cappellini comuni), proveniente da un appezzamento di terreno dov’erano in corso alcuni esperimenti. Come la maggior parte delle piante geneticamente modificate, tuttavia, è stata progettata per resistere ai pesticidi, il che implica un costo metabolico per l’organismo: se non venisse irrorata con i pesticidi, infatti, sarebbe svantaggiata rispetto alle altre piante e probabilmente morirebbe.

Condannate
La nostra scomparsa non significherebbe la salvezza per tutte le specie che sono minacciate dall’estinzione. I biologi calcolano che nell’85 per cento dei casi il problema principale di queste specie è la perdita dell’habitat. La maggior parte, quindi, dovrebbe trarre vantaggio dal ritorno del proprio habitat alle condizioni originarie. Quelle più a rischio, però, potrebbero aver già superato la soglia oltre la quale vengono a mancare la diversità genetica e la massa critica ecologica necessarie per riprendersi. Queste “specie condannate a morte” – i ghepardi e i condor della California, per esempio – probabilmente scomparirebbero in ogni caso.

Invertire la tendenza nei casi di scomparsa delle specie non legati alla perdita di habitat potrebbe essere ancora più difficile. Circa la metà delle specie a rischio, per esempio, è minacciata almeno in parte dai predatori o dalla concorrenza di specie invasive introdotte dall’uomo. Alcune di queste specie aliene – come i passeri, che sono originari dell’Eurasia ma ora sono presenti anche in molte città del Nord America – comincerebbero a diminuire se scomparissero i giardini e le vaschette di mangime per uccelli delle nostre case. Ma altre specie, come i conigli in Australia e il forasacco dei tetti nell’ovest degli Stati Uniti, non hanno bisogno dell’aiuto umano e probabilmente resterebbero in circolazione a lungo, continuando a estromettere le specie indigene a rischio.

Paradossalmente alcune specie a rischio – quelle che hanno attirato l’attenzione degli ambientalisti – se la caverebbero peggio senza la protezione degli esseri umani. La dendroica di Kirtland – uno degli uccelli più rari del Nord America, ridotto ormai a poche centinaia di esemplari – non soffre solo per la perdita di habitat nella zona dei Grandi Laghi ma anche a causa dei molotri, che depongono le uova nei nidi delle dendroiche e le ingannano costringendole ad allevare i loro piccoli. Grazie a un intenso programma per la cattura dei molotri, il numero delle dendroiche è tornato ad aumentare, ma una volta scomparsi gli esseri umani sarebbero di nuovo nei guai. Nel complesso, tuttavia, una Terra senza esseri umani sarebbe un luogo con meno rischi per la biodiversità: “Le specie che ne trarrebbero vantaggio sarebbero più di quelle che ne risentirebbero”, osserva Wilcove.

I grandi predatori
Negli oceani la popolazione ittica si riprenderebbe gradualmente dagli eccessi della pesca. L’ultima volta che gli esseri umani hanno più o meno smesso di pescare è stato durante la seconda guerra mondiale, quando pochi pescherecci si avventuravano lontano dai porti. All’epoca la popolazione di merluzzi del Mare del Nord salì alle stelle. Oggi, invece, il numero di merluzzi e altri pesci importanti per l’alimentazione è molto al di sotto dei livelli degli anni trenta, e la ripresa potrebbe richiedere più di cinque anni. Il problema è che ormai i merluzzi e gli altri grandi predatori sono così pochi che non riescono più a tenere sotto controllo le popolazioni di specie più piccole come i pesci cappone. Anzi, i pesci più piccoli hanno rovesciato la situazione: si sono messi in concorrenza e sono arrivati anche a mangiare i giovani merluzzi, tenendo così sotto controllo i loro vecchi predatori.

Nei primi anni dopo la fine della pesca la situazione potrebbe solo peggiorare, perché le popolazioni di pesci più piccoli, che mangiano più rapidamente, crescerebbero come le erbacce in un campo abbandonato. Alla fine, però, un numero sufficiente di grandi predatori riuscirebbe a raggiungere la maturità e a ristabilire l’equilibrio normale. Una transizione del genere potrebbe richiedere da qualche anno a qualche decennio, afferma Daniel Pauly, un biologo marino dell’università della British Columbia a Vancouver. Se i motopescherecci a strascico smettessero di agitare i fondali marini, gli ecosistemi vicini alle coste tornerebbero a uno stato relativamente povero di sostanze nutrienti. Questo risulterebbe evidente soprattutto dal calo della fioritura di alghe dannose, come le maree rosse che spesso affliggono le zone costiere.

Intanto, i coralli e gli altri organismi che vivono sulle barriere coralline più profonde comincerebbero lentamente a ricrescere, restituendo una struttura complessa e tridimensionale agli habitat dei fondali oceanici, ormai diventati piatti e deserti. Dopo la scomparsa degli esseri umani dalla Terra, inoltre, le sostanze inquinanti smetterebbero di uscire dai tubi di scappamento delle automobili, dalle ciminiere delle fabbriche e dalle discariche. Le conseguenze di questa interruzione sarebbero varie, e dipendono dalle caratteristiche chimiche di ogni sostanza. Alcune, come gli ossidi d’azoto e di zolfo e l’ozono – la sostanza inquinante a livello del terreno, non lo strato protettivo che si trova nella stratosfera –, sparirebbero dall’atmosfera nel giro di poche settimane. Altre, come i clorofluorocarburi, le diossine, il ddt, ci metterebbero più tempo. Altre ancora resterebbero per decenni.

Basterebbero poche decine di migliaia di anni per veder sparire ogni traccia della nostra esistenza

Anche i nitrati e i fosfati in eccesso, che possono trasformare i laghi e i fiumi in una zuppa di alghe nel giro di qualche decennio, scomparirebbero almeno dalle acque di superficie. Qualche fosfato potrebbe restare molto più a lungo nelle falde freatiche, dove è meno soggetto alla conversione in azoto atmosferico da parte dei microbi. “Le falde freatiche sono la memoria a lungo termine dell’ambiente”, osserva Kenneth Potter, un idrologo dell’università del Wisconsin a Madison. L’anidride carbonica, che oggi preoccupa il mondo a causa del suo ruolo nel riscaldamento globale, avrebbe un destino molto diverso. Buona parte dell’anidride carbonica emessa dai combustibili fossili verrebbe prima o poi assorbita dagli oceani.

Alle acque di superficie basterebbero poche decine di anni, mentre le profondità dell’oceano impiegherebbero circa un millennio per assorbire la loro parte. E anche dopo il raggiungimento di quell’equilibrio, circa il 15 per cento dell’anidride carbonica prodotta dai combustibili fossili resterebbe nell’atmosfera: la sua concentrazione sarebbe di 300 parti su un milione, mentre in epoca preindustriale era di 280. “Se gli essere umani smettessero di produrla, l’anidride carbonica resterebbe nell’atmosfera e continuerebbe a influire sul clima per più di mille anni”, afferma Susan Solomon, una chimica dell’atmosfera della National oceanic and atmospheric administration (Noaa) di Boulder, nel Colorado.

Alla fine gli ioni di calcio emessi dai sedimenti del fondo marino permetterebbero al mare di assorbire l’ulteriore eccesso in circa ventimila anni. Anche se le emissioni di anidride carbonica s’interrompessero domani, il riscaldamento globale andrebbe avanti per un altro secolo e le temperature medie salirebbero ancora di qualche grado. Gli scienziati dell’atmosfera parlano di committed warming. Questo fenomeno si verifica perché gli oceani impiegano molto più tempo a riscaldarsi rispetto all’atmosfera. In pratica si comportano come un gigantesco condizionatore d’aria, mantenendo l’atmosfera più fredda di come dovrebbe essere con gli attuali livelli di anidride carbonica.

La maggior parte delle persone che prendono decisioni in ambito politico non tiene conto di questo tipo di riscaldamento, spiega Gerald Meehl, che costruisce modelli climatici per il National center for atmospheric research, sempre di Boulder. “Pensano che se le cose si metteranno male potremo sempre fermarci. Ma non possiamo fermarci e sperare che tutto torni a posto da un momento all’altro, perché questo tipo di riscaldamento è già avviato”. Questo riscaldamento “extra” rende incerto anche il destino di un altro importante gas serra, il metano, che causa circa il 20 per cento dell’attuale riscaldamento globale. Il metano resta nell’atmosfera solo una decina di anni e quindi la sua concentrazione potrebbe rapidamente tornare ai livelli preindustriali se venissero interrotte le emissioni.

L’incognita, tuttavia, è legata al fatto che esistono enormi riserve di metano sotto forma di idrati sui fondali marini e nel permafrost. Un ulteriore aumento delle temperature potrebbe destabilizzare queste riserve, che rilascerebbero la maggior parte del metano nell’atmosfera. “Noi possiamo anche smettere di emettere metano, ma forse il cambiamento climatico è arrivato al punto che la sua emissione dipenderebbe da processi che non possiamo controllare”, afferma Pieter Tans, uno scienziato dell’atmosfera della Noaa di Boulder. Nessuno sa quanto la Terra sia vicina a questa soglia. “Le nostre reti di misurazione globali non hanno ancora rilevato nulla, ma a livello locale abbiamo le prove che la destabilizzazione del permafrost è già in corso, con il conseguente rilascio di metano”, aggiunge. Solomon, invece, pensa che questa soglia sia ancora lontana.

Una civiltà avanzata
Tutto sommato basterebbero poche decine di migliaia di anni al massimo per veder sparire ogni traccia della nostra presenza. Se qualche alieno visitasse la Terra centomila anni dopo, non troverebbe segni evidenti di una civiltà avanzata. Ma se quegli alieni avessero strumenti scientifici abbastanza sofisticati, potrebbero ancora trovare qualche segno della nostra esistenza.

Innanzitutto, l’analisi dei fossili dimostrerebbe che c’è stata un’estinzione di massa nella nostra epoca, compresa l’improvvisa scomparsa dei grandi mammiferi nel Nord America alla fine dell’ultima era glaciale. Scavando un po’ potrebbero anche trovare le affascinanti tracce di un’antica civiltà intelligente. Per esempio forti concentrazioni di scheletri di una grande scimmia bipede, alcuni dei quali avrebbero denti d’oro o gioielli. E se gli alieni si imbattessero in una delle attuali discariche, potrebbero ancora trovare frammenti di vetro e di plastica, forse anche di carta. “Sono quasi sicuro che ci sarebbero tracce di questo tipo”, dice William Rathje, un archeologo dell’università californiana di Stanford. “È veramente incredibile come si conservano le cose. Pensiamo che i nostri manufatti resistano poco nel tempo, ma in certi casi durano moltissimo”.

Il carotaggio dei sedimenti oceanici dimostrerebbe che per un breve periodo sono state depositate grandi quantità di metalli pesanti, come il mercurio. La stessa fascia di sedimenti mostrerebbe anche la concentrazione di isotopi radioattivi lasciata dalla fusione dei reattori nucleari seguita alla nostra scomparsa. L’atmosfera conterrebbe tracce di alcuni gas che non esistono in natura, soprattutto perfluorocarburi come il cf4, e che hanno un’emivita di decine di migliaia di anni.

Infine, una serie di onde radio continuerebbe a diffondersi nella galassia e anche oltre dimostrando – a chiunque volesse e potesse ascoltare – che un tempo avevamo qualcosa da dire e un modo per dirlo. Ma sarebbero fragili ricordi, patetiche memorie di una civiltà che un tempo pensava di essere il culmine dell’evoluzione. Nel giro di qualche milione di anni, l’erosione e forse una o due nuove ere glaciali cancellerebbero quasi tutte queste labili tracce. Se un’altra specie intelligente si evolvesse sulla Terra – e non è detto, considerato da quanto tempo esisteva la vita prima della nostra comparsa – potrebbe non avere idea della nostra esistenza, se non per qualche strano fossile e per pochi resti pietrificati. Un fatto che dovrebbe renderci più umili, ma anche confortarci, è che la Terra ci dimenticherebbe molto presto.

Questo articolo è uscito il 12 gennaio 2007 nel numero 675 di Internazionale, a pagina 38. L’originale era uscito su New Scientist.

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