Negli ultimi anni si sono moltiplicate le immagini di film o libri su bambini e ragazzi costretti a trascorrere una parte della loro infanzia o dell’adolescenza nelle stanze apparentemente sterili di un ospedale, dove finiscono per trovare una nuova dimensione di vita, un’occasione di crescita da condividere con quegli stessi compagni di reparto e d’avventura.

Eppure quest’attenzione non si è ancora concentrata su una categoria particolare di persone che ogni giorno entrano in quelle stanze indossando un camice bianco e soprascarpe di plastica blu, talvolta un camice verde sopra il camice bianco, molto spesso una mascherina davanti alla bocca. No, non sono i medici.

È un piccolo esercito di insegnanti che cerca di fare quella che è comunemente chiamata la scuola in ospedale. In alcuni reparti, in verità, questo gruppo si nota meno: nelle stanze di neuropsichiatria infantile, per esempio, i ragazzi non rischiano di prendere alcuna infezione da chi arriva dall’esterno, anche se sotto molti altri aspetti il loro rapporto con gli insegnanti e con la scuola è ancora più delicato.

Una storia lunga

La maggior parte di questi adolescenti (con un’età che si abbassa di anno in anno), ha smesso di frequentare la scuola a causa di un malessere che si è poi rivelato contiguo alla patologia (disturbi del comportamento, schizofrenia, disturbi alimentari) e può ricominciare un percorso scolastico solo riparandosi tra le mura di un ospedale e con l’aiuto di una psicoterapia (i più fortunati) che riesca a contenerne l’angoscia.

Quando sono entrata per la prima volta a insegnare in alcuni reparti del policlinico Umberto I di Roma non sapevo nulla di questa realtà, né potevano aiutarmi i colleghi che avevo incontrato negli anni precedenti, né la maggior parte delle persone che conoscevo. Così ho fatto quello che noi insegnanti facciamo quando non sappiamo qualcosa: ho cominciato a studiare, e ho scoperto che oggi in Italia (a eccezione del Trentino e della Valle D’Aosta) esistono 282 sezioni scolastichein ospedale, suddivise variamente: si va da 46 in Lombardia, a 44 in Sicilia, a 39 in Campania ad appena 2 in Molise, alle 5 dell’ospedale Gaslini di Genova, le uniche in tutta la Liguria che per il resto utilizza il servizio domiciliare (dati del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca).

La scuola in ospedale è una realtà così diffusa in Italia perché ha una storia lunga: già negli anni cinquanta in alcuni reparti pediatrici furono aperte, su iniziativa di singoli operatori e istituzioni, alcune sezioni scolastiche speciali per fornire un sostegno didattico ai piccoli pazienti che all’epoca, a parità di malattia con quanto accade oggi, erano ricoverati per periodi molto più lunghi, anche per anni, tanto da essere definiti “lungodegenti”.

Oggi c’è una chiara consapevolezza che la scuola in ospedale deve sviluppare una specifica offerta formativa

Si è dovuto però aspettare il 1986, dopo la Carta europea dei bambini degenti in ospedale, perché con due circolari ministeriali (la seconda del 1998) fosse ratificato il carattere normale della sezione ospedaliera, collegata ogni volta con una scuola del territorio, e dunque inserita nel contesto più ampio del diritto/dovere all’istruzione e del diritto alla salute e come prevenzione della dispersione scolastica.

Con il Protocollo d’intesa del 2000 firmato dai ministri dell’epoca – Tullio De Mauro all’istruzione, Umberto Veronesi alla sanità e Livia Turco alla solidarietà sociale – sono stati definitivamente istituiti corsi di studio per le scuole di ogni ordine e grado all’interno dell’ospedale e forme di istruzione domiciliare qualora la patologia non preveda il ricovero, ma impedisca la frequenza della scuola per almeno 30 giorni.

Percorsi inediti

Nel novecento l’intervento didattico è stato avvertito come semplice “sostituto” per far sì che il tempo della cura non fosse totalmente perduto dal punto di vista dell’istruzione. Tuttavia i progressi della pedagogia speciale, entrata in classe negli anni settanta, hanno permesso di compiere grandi passi avanti in Italia (per esempio di avere consentito, tra le prime in Europa, l’ingresso nelle scuole comuni di studenti con problemi fisici e psichici anche gravi) e pure grazie a questo oggi c’è una chiara consapevolezza del fatto che la scuola in ospedale deve/dovrebbe sviluppare una sua specifica offerta formativa che non può più essere un semplice sostegno o un prolungamento della scuola tradizionale.

Il reparto di day hospital per i bambini malati di leucemia nell’ospedale San Gerardo, a Monza. (Roberto Arcari, Contrasto)

Essa può/potrebbe, anzi, diventare un modello non solo di collaborazione tra istituzione scolastica e servizi sociosanitari (azienda sanitaria locale ed enti locali), leggo sul sito Miur, ma un’occasione anche per gli insegnanti di ripensare al loro lavoro, in un contesto in cui i bisogni più evidenti dei ragazzi possono stimolare percorsi inediti e interdisciplinari.

Non solo, “il personale docente deve possedere capacità relazionali, in quanto le condizioni in cui si esplica il servizio possono metterne a dura prova la serenità e l’obiettività.” Anche perché, come ricorda poi il sito della sezione ospedaliera del Bambino Gesù di Roma, tale scuola dovrebbe far “esprimere al bambino le paure e le ansie legate alla malattia e all’ospedalizzazione, aiutarlo a superare la demotivazione, l’abulia e l’apatia […] la separazione dai quotidiani riferimenti affettivi”.

Ottime intenzioni queste (esisteva già un Corso di differenziazione didattica per insegnanti ospedalieri del provveditorato agli studi di Bologna nel 1955) che ho trovato però subito disattese nella mia esperienza di insegnante, all’epoca precaria, in una sezione ospedaliera di scuola superiore, che non aveva a disposizione alcuna preparazione speciale per questi ragazzi che mi aspettavano in reparti e situazioni completamente diverse, e che soprattutto provenivano ognuno da una scuola diversa, avendo un’età compresa tra i 14 e i 19 anni.

A maggior ragione, mi dico, quando non si può contare sull’uniformità dei programmi della scuola dell’obbligo, servirebbero dei corsi di formazione per i docenti in una scuola che non ha pareti né classi, ma prevede ogni volta l’incontro di due individui, un adulto e un adolescente che hanno bisogno di una struttura e procedure solide per cominciare a comunicare e contenere se stessi materialmente e psicologicamente.

Si rischia ogni volta l’improvvisazione, si rischia di non avere risposte adeguate per adolescenti che hanno già sofferto

“Le uniche giornate di formazione per insegnanti ospedalieri le ho frequentate prima della mia presa di servizio in ospedale e non erano obbligatorie: le ho scelte io per prepararmi meglio dopo tanti anni di ruolo nella scuola tradizionale”, dice Marina Monaco, otto anni nella sezione ospedaliera del policlinico Umberto I di Roma. Alessandro Bellia, insegnante e coordinatore della stessa sezione conferma che questi corsi preservizio sono durati solo due anni e aggiunge: “Dovrebbero essere di nuovo istituiti dei corsi che autorizzino il docente (precario e non) a chiedere di insegnare in questa realtà, equipaggiandolo di una seria strumentazione che gli impedisca di fare almeno quei macroerrori che all’inizio capitano a chiunque con gli studenti ‘pazienti’”.

Una pausa sulla strada della cura

Già, li ricordo anch’io questi errori: non stancare i ragazzi con troppi minuti di lezione individuale, non fare commenti sulla loro malattia o sul corpo, ma trovare al tempo stesso una forma di empatia che non li faccia sentire trasparenti agli occhi dell’adulto che hanno davanti e che per mezz’ora o tre quarti d’ora dovrebbe fargli dimenticare perché sono lì.

Ripensare la scuola come divertimento, nel senso di divergere per un attimo dalla strada segnata dalla cura quotidiana della malattia, che è il motivo per cui sono lì: i cicli di chemio, gli psicofarmaci, i calmanti, le visite. Bellia aggiunge: “Anche i docenti già in servizio dovrebbero essere tutelati e accompagnati psicologicamente in un lavoro che non è uguale agli altri. Temo che la riforma in atto e l’aumento della mobilità degli insegnanti non faciliteranno le cose”.

Si rischia dunque di tornare al principio e di affidare un servizio pubblico alla buona volontà del singolo. Si rischia ogni volta l’improvvisazione, si rischia di non avere risposte adeguate per adolescenti che hanno già sofferto. Ho insegnato per tre anni in ospedale e oggi posso dire di aver molto imparato da quell’esperienza, e molto mi hanno dato i miei piccoli studenti pazienti. Nessuno può sapere invece, a causa delle norme vigenti e dei tagli ministeriali, cosa ho dato io a loro, se ero adeguata a stare lì, se nel corso del tempo ho sviluppato anch’io qualche disturbo e se i miei studenti oltre che dalla malattia dovevano difendersi anche da me.

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