Fish&chips, wiener schnitzel, gulash, würstel e paella. Negli asili nido del comune di Roma viene consegnata in questi giorni ai genitori una lettera firmata dall’assessore alla scuola Alessandra Cattoi per spiegare che in occasione del semestre europeo a guida italiana, che si concluderà il 31 dicembre 2014, stanno per essere introdotti nei menù dei bimbi, da qui a giugno 2015, quindici piatti tradizionali dei paesi dell’Unione europea. Ingredienti e origini dei piatti sono illustrati da simpatici e vagamente stereotipati personaggi a fumetti: la francese con basco rosso e vestitino a righe orizzontali, l’inglese con colbacco e giubba da guardia reale, lo spagnolo vestito da torero, e così via.
Appare decisamente più complicato, invece, ritrovare, a pochi giorni dal suo epilogo formale, senso, sostanza e fisionomia di questi sei mesi di presidenza di turno italiana del consiglio dell’Unione europea. Così come appare sempre più appannato, sullo sfondo delle periodiche raccomandazioni economiche e di bilancio, ogni concetto di Europa unita, nonostante il 2014, con il centenario dell’inizio della prima guerra mondiale, si prestasse a una riflessione collettiva ben più profonda e significativa.
Il semestre è cominciato il 2 luglio con un discorso del presidente del consiglio Matteo Renzi che rinviava a un documento scritto programmi e impegni dell’Italia e preferiva puntare su suggestioni culturali e politiche, dalla generazione Telemaco alla smart Europe, e sull’idea di crescita contrapposta a quella del rigore sui conti pubblici. Numerosi, invece, i richiami sul ruolo dell’Ue nella politica estera e nelle varie crisi internazionali. Uniche concessioni programmatiche nel discorso di Renzi quelle sulla questione immigrazione e ruolo europeo nel Mediterraneo, su servizio civile europeo, ict (information and communication technology), cambiamento climatico e capitale umano.
Se oggi l’Europa facesse un selfie che immagine verrebbe fuori? Emergerebbe il volto della stanchezza e della rassegnazione. L’Europa oggi mostrerebbe il volto della noia. Eppure, il mondo fuori di qui corre veloce. Non vogliamo cambiare le regole, ma vogliamo anche la crescita, così come previsto dal patto fondativo firmato dai nostri padri. Non ci interessa giudicare il passato ma iniziare il futuro. […] Se pensiamo al passaggio del testimone tra Grecia e Italia non pensiamo a cose straordinarie e affascinanti e ricche di suggestione, come il rapporto tra Anchise ed Enea, Pericle e Cicerone, l’agora ed il foro, il tempio e la chiesa, il Partenone e il Colosseo. Non pensiamo a questo quando parliamo di Grecia e Italia e neanche al senso della vita, nonostante Aristotele e Dante, Archimede e Leonardo. E invece pensiamo solo alla crisi, allo spread, alle difficoltà finanziarie, perché è molto forte nel nostro corpo la ferita lasciata dalla recente difficoltà congiunturale economica.
A sei mesi di distanza l’impressione è che il selfie dell’Europa non potrebbe restituire un’immagine molto diversa da quella di luglio e il senso della vita per milioni di famiglie passa ancora per una lotta per la sopravvivenza tra disoccupazione, bassi redditi e prospettive sempre più incerte. Ma, purtroppo, nessuno si faceva illusioni sul fatto che un semestre del consiglio dell’Unione europea potesse modificare le cose e questo rientra nel grande problema della credibilità e fiducia che le istituzione comunitarie ispirano ai cittadini che rappresentano. I commentatori più esperti segnalavano già da molti mesi prima quanto poco potere avesse strutturalmente questa presidenza. Inoltre l’Italia si è trovata in un momento di grande transizione tra le elezioni che hanno rinnovato il parlamento europeo e la laboriosa formazione della nuova Commissione, del suo presidente e delle altre figure di spicco.
Al netto di tutto questo, per gli osservatori di questioni comunitarie dovevano essere tre i temi concreti di confronto:
il Ttip (Transatlantic trade and investment partnership), il trattato di libero scambio con Canada e Stati Uniti che azzerando i dazi doganali e semplificando le normative potrebbe aprire quei mercati alle esportazioni anche di piccole e medie imprese;
l’accordo sul cosiddetto made in, cioè l’etichettatura di origine dei prodotti di consumo non alimentari che dovrebbe difendere la manifattura di qualità rispetto a quella di paesi che importano prodotti semilavorati non dichiarandone l’origine sulla marchiatura finale;
la partecipazione europea alle operazioni nel Mediterraneo che riguardano le traversate dei migranti in arrivo dal Nord Africa.
Per stessa ammissione di Renzi i primi due temi non sono stati affrontati come l’Italia avrebbe voluto. L’accordo commerciale con i paesi atlantici, criticato da sindacati e movimenti, è ancora in fase di elaborazione, mentre il dossier sul made in è stato bloccato e rinviato al prossimo semestre a guida lettone scatenando le arrabbiature di imprenditori e commercianti.
Sull’immigrazione l’Unione europea ha approvato la missione Triton, partita il 1° novembre, che però ha caratteristiche molto diverse dall’operazione Mare Nostrum della marina italiana che sarebbe dovuta andare a sostituire. Quest’ultima era nata ad ottobre 2013 dopo la immane tragedia di Lampedusa per “garantire la salvaguardia della vita in mare ed assicurare alla giustizia tutti coloro i quali lucrano sul traffico illegale di migranti”. L’impegno europeo, invece, come chiarito dal direttore esecutivo di Frontex, Gil Arias Fernandez, ha come scopo principale il controllo della frontiera e non la “ricerca e il soccorso”, che erano, invece, al centro dell’operazione italiana. Nei fatti questo si traduce nel passaggio da un’area di ventiduemila miglia controllate dalla marina italiana alle settemila pattugliate dai mezzi europei con una ricaduta diretta sul numero degli sbarchi (aumentati nel novembre 2014 del 486 per cento) e su quello dei naufragi.
Alcuni accordi conclusi, come la direttiva per ridurre i sacchetti di plastica o l’intesa politica sulla lotta ai trucchi fiscali delle grandi società, possono essere giudicati positivi e il governo italiano ci tiene a sottolineare anche l’importante intesa sul cambiamento climatico: “Per la prima volta l’Europa ha una posizione comune avanzata da presentare a Parigi e a Lima”, come spiega Sandro Gozi, sottosegretario alla presidenza del consiglio per le politiche europee.
Ma, a dispetto di Aristotele e Dante, sarà sul piano economico e sulle difficoltà finanziarie dell’Italia e degli altri paesi malati di debito e di scarsa crescita che si giocherà ancora una volta la partita europea. Renzi ha giocato il suo ruolo, favorito anche dal grande successo elettorale del Pd alle elezioni europee di maggio, nelle trattative per la scelta della Commissione europea riuscendo a ottenere per Federica Mogherini il ruolo di altro rappresentante per la politica estera e rivendicando come un successo il fatto che il nuovo presidente, il conservatore Jean-Claude Juncker, abbia inserito nel suo programma un piano di investimenti di 300 miliardi, anche se di quella cifra sono ben pochi i soldi “freschi”. L’ex premier lussemburghese, azzoppato nella sua credibilità dallo scandalo degli accordi di elusione fiscale per le multinazionali che fissavano la sede nel suo paese, da parte sua ha deciso di non calcare la mano sui rilievi alla legge di bilancio italiana rinviando a marzo la decisione su eventuali procedure di infrazione.
Da queste premesse si arriva al consiglio europeo del 18 e 19 dicembre, l’ultimo a guida italiana, in cui parleranno fianco a fianco Renzi e Junker e in cui i dettagli del “piano” verranno precisati. L’Italia, che conta su quel piano, tra le altre cose, per un imponente programma sull’edilizia scolastica da 8,7 miliardi, potrebbe dare un segno molto più dolce al suo semestre spingendo i leader europei a superare le divisioni e a sostenere con convinzione il progetto. La prossima occasione per una guida italiana di un semestre europeo sarà nel 2028.
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