Nel regno degli antiabortisti
Domenica 10 maggio sono andata alla quinta marcia per la vita (la mia seconda). Dalla precedente non è cambiato molto: solite frasi, soliti cartelli. “Io non sono un grumo”. “Non mi uccidere”. “Stop aborto”. “La legge 194 è una legge assassina”. “L’aborto ferisce l’amore”.
Tra i testimonial antiabortisti d’eccellenza c’è spesso madre Teresa di Calcutta: “Se una mamma uccide il frutto del suo grembo, cosa può impedire agli uomini di uccidersi a vicenda”.
E poi slogan del tipo: “Pesa molto di più un bimbo sulla coscienza che in braccio!”, “Non uccidete il futuro”.
Tutti modi fantasiosi per ribadire che la vita non si tocca, la vita è sacra, il concepimento è un momento magico, abortire deve essere illegale. Nessuno ha mai chiarito cosa sia questa “vita”, ma gli antiabortisti sono stati bravissimi a mettere le mani su uno slogan perfetto: breve, incisivo, insensato, ma emotivamente coinvolgente. “Noi siamo per la vita” è perfetto, per smontarlo ci vogliono alcuni minuti e in genere l’uditorio è già distratto da altro quando si sta ancora spiegando che bisogna distinguere di quale vita si tratti: gli antiabortisti non intendono certo quella biologica in generale, ma solo quella umana, e nemmeno sempre, perché la “vita” che difendono più ostinatamente è quella dell’embrione e del feto, e qui il panorama si fa più nebbioso; l’ingenuità, tuttavia, è di chi cerca la coerenza dove c’è solo un paternalismo feroce. E poi si dovrebbe anche ricordare che non esiste un momento del concepimento ma un processo continuo, e di conseguenza bisognerebbe chiarire da quando si comincia a considerare la sacralità.
“Noi siamo per la vita” e quindi voi se non state con noi sarete per la morte o per qualcosa di altrettanto brutto. Non si ripeterà mai abbastanza che non stare con loro non significa nemmeno essere a favore dell’aborto ma della libertà di scelta. Non stare con loro non significa nemmeno non farli marciare, ma ricordare che le loro convinzioni si sono infilate nel servizio sanitario, negli ospedali pubblici e nei consultori. Se il servizio di interruzione volontaria della gravidanza (ivg) fosse garantito senza attese e senza sguardi che oscillano tra “poveretta” e “guarda quella puttana che abortisce”, della marcia potremmo ridere come di una manifestazione folkloristica. Invece è anche un’ennesima occasione per ripetere, come dischi inceppati, che l’interruzione volontaria della gravidanza è una procedura medica oppressa dalla condanna morale e resa incerta dagli altissimi numeri di obiettori di coscienza (la media nazionale che supera il 70 per cento, con punte del 90 per cento e con molti ospedali in cui il reparto ivg proprio non c’è).
L’ostacolo finale in cui inciampa chi vuole vietare l’aborto è sempre lo stesso: se una donna, dopo tutti i tentativi, le preghiere, le minacce, le promesse e le bufale paternalistiche sulla sindrome postabortiva, vuole ancora abortire, cosa si fa?
Cioè: per impedirle di interrompere la gravidanza cosa arriviamo a fare? Prigione? Collegio?
E ancora: se l’aborto è il delitto più atroce, la punizione dovrebbe essere coerente. E infatti qualcuno di Militia Christi suggeriva “almeno il carcere”. In quell’“almeno” si aprono mondi che forse è meglio non esplorare. Cosa c’è di più del carcere? La tortura? La morte? Le frustate?
In ogni modo dobbiamo essere pronti a fare quello che l’ipocrita ma furbo Giuliano Ferrara – e moltissimi con lui – non osano fare: chiamare assassine le donne che abortiscono. D’altra parte, se ammazzi qualcuno come vuoi che ti chiamino?
L’iconografia di queste marce è sempre sbagliata per eccesso: si parla di aborto ma a guardarti e intenerirti dai manifesti c’è un neonato, a volte anche di alcuni mesi. Ci sono molte scritte con richieste dalla parte dell’embrione: non mi abortire, non mi uccidere, fammi nascere.
Alla marcia di domenica c’è anche stata anche una canzone dal punto di vista dell’abortito: “Non ti avrei delusa”. Non ti avrei delusa, madre, se tu non avessi preso quella sconsiderata decisione di abortire. Una versione perfino più molesta della Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci.
Domenica le novità erano principalmente due rispetto alla marcia romana del 2013: dei fetini di plastica (ne ho comprati quattro, uno l’ho regalato e gli altri tre stanno nella mia borsa) e una spilletta a forma di piedini di un embrione di dieci settimane (Precious feet, “the exact size and shape of a 10-week unborn baby’s feet”, perché ovviamente sono bambini, e che non siano ancora nati è un dettaglio di poco conto, la cosa importante è che sono bambini e i bambini non si abortiscono). Forse questa marcia era anche più cantata del solito (“Gesù Cristo è generale, solo lui deve regnare” con rullo di tamburi e “chi non salta non è di Gesù Cristo”), ma non sono sicura.
La vincitrice della giornata è stata senza dubbio una ragazza con il cartello “L’utero è mio e decide Dio”, uno slogan che andrebbe benissimo se si limitasse a parlare del suo utero, ma i marciatori per la vita ambiscono sempre alla legge universale e a decidere per gli uteri di tutte le altre.
Non c’è niente da fare, con gli slogan sono bravi. Con le argomentazioni se la cavano molto male, ma che importa?
Il mio bottino personale alla fine della giornata, oltre ai fetini e alla spilletta con i piedi, è fatto di alcuni santini, due numeri di Notizie ProVita, bigliettini vari. “Per quelle che subiscono l’aborto volontario”, mi ha detto la tipa che mi ha consegnato un pacchetto di una decina di biglietti di La Vigna di Rachele, metà verdi con un fiore e la scritta “per ritrovare la speranza dopo l’aborto” e metà bianchi con una farfalla viola e la scritta “un ritiro spirituale per rinascere dopo l’esperienza dell’aborto”.
Dopo l’appropriazione della “vita”, ecco un’altra mossa geniale. Gli stessi antiabortisti hanno capito che la difesa dell’embrione e del suo presunto diritto di nascere non è abbastanza per fermare l’aborto. Le donne continuano ad abortire, perfino quelle che il giorno prima erano a qualche picchetto contro l’aborto (così come le mogli, le sorelle, le amanti, le amiche degli obiettori di coscienza o gli obiettori stessi se sono donne, cioè obiettrici). E allora ultimamente stanno puntando su un argomento paternalistico, falso e fallace: non ti dico di non abortire perché quello che non vuoi far nascere è in realtà una persona, ma perché se abortirai starai male per sempre.
Nel sito di La Vigna di Rachele ci sono molti esempi. L’aborto fa male alle donne e le parole sono paternalisticamente minacciose: “Molte donne in tutto il nostro paese e all’estero hanno provato difficoltà in seguito all’aborto. […] Oltre il lutto emozionale che vive la madre abortiva, anche il corpo della donna che è stata incinta e ha abortito ha bisogno di molto tempo per tornare alla normalità. Il corpo in un certo senso possiede una “memoria”. […] La perdita di un figlio, anche per aborto ‘volontario’, non è un evento cancellabile. Bisogna attraversare il lutto, non evitarlo”.
L’invenzione della cosiddetta sindrome postabortiva è l’ultima mossa del fronte ultraconservatore. Si nutre del silenzio e della vergogna spesso associati all’aborto, e viene alimentata non solo dagli estremisti, ma da tutti i tiepidi e i pavidi, dai “per fortuna a me non è successo”, dai “sì, deve essere legale ma è comunque sempre un trauma” (e l’aborto non viene nemmeno nominato), dalla ritrosia nel parlare di aborto, dall’ossessione sempre più diffusa di vedere colpe dove non c’è che la possibilità di scegliere. O almeno, dove dovrebbe esserci la possibilità di scelta e invece c’è un giudizio ipocrita e la presunzione di sapere quale sia il nostro bene.