Nessuno scelga al posto delle donne sulla maternità surrogata
La maternità surrogata è uno degli argomenti peggio trattati dell’ultimo secolo. Tra gli esempi recenti, l’articolo di Assuntina Morresi India: donne umiliate sul libro di Amrita Pande Wombs in Labor, ovvero come fare confusione per l’ennesima volta tra cose diverse, giudicando allo stesso modo un regalo o una vendita e un furto.
Qualche giorno fa è la segreteria nazionale di ArciLesbica a scrivere al riguardo, rimanendo però imprigionata in una delle più diffuse incomprensioni.
Certo, qualcosa nell’articolo si salva, come quando si ricorda che “nel dibattito contemporaneo si parla del fatto che gli uomini, gay, abbiano monopolizzato il tema della maternità surrogata. In realtà è una certa politica, per lo più reazionaria e conservatrice, che ricorre a questa definizione, relegandola al solo mondo lgbt quando, invece la gestazione per altri (gpa) è una pratica a cui ricorrono soprattutto le coppie eterosessuali impossibilitate ad avere […] figli”. Poi però si continua su una nota paternalistica: “Nel 2012 ArciLesbica, al termine del suo sesto congresso, ha definito la propria posizione sul tema, asserendo che la gpa, se realizzata per solidarietà, è altruistica, se si dà per un compenso è commerciale”.
Già si capisce dove stiamo per arrivare: la solidarietà va bene, la commercializzazione no. Basta la presenza del commercio per trasformare una possibile scelta in uno scambio immorale e rovinoso di corpi e desideri.
La volontarietà non ha a che fare con i soldi, ma con le condizioni in cui si decide
Ecco spiegato meglio il motivo della condanna dell’eventuale presenza di accordi economici: “La gpa può sussistere nel momento in cui risulta essere un atto volontario, per sottolineare questa volontarietà è necessaria la gratuità, anche economica, del gesto. La libertà del gesto sta nella sua gratuità, e la libertà delle donne sta nella consapevolezza che questo sia un tema molto complesso e composto da diverse sfaccettature, cui spetta un’analisi che non si riduca a: ‘Sì gpa!’ o ‘No gpa!’. Non riduciamo dunque la gestazione per altri a una scelta che viene adita sul corpo delle donne”.
La premessa va bene (“La gpa può sussistere nel momento in cui risulta essere un atto volontario”), ma la condizione necessaria, secondo Arcilesbica, per rilevare la volontarietà è abbastanza fuori fuoco. Che per essere un atto volontario la gpa debba essere gratuita è bizzarro: di quale altra attività lo diremmo?
In altre parole, quando affermiamo un principio (“per essere un atto volontario X è necessaria la gratuità”), dovremmo chiederci se diventa surreale o insensato applicato in altri contesti. Dovremmo provare a fare qualche prova sostituendo a X quello che più ci piace e scopriremmo che la gratuità può essere una scelta ma non una condizione necessaria e che la presenza di soldi non implica necessariamente che non abbiamo deciso liberamente. Anzi, spesso giudicheremmo l’assenza di soldi come immorale.
La volontarietà non ha a che fare con i soldi, ma con le condizioni in cui si decide. E anche con la proprietà del corpo. Se è una scelta allora non è “adita sul corpo delle donne”, non intrinsecamente, ma dovrebbero essere le donne a scegliere cosa fare del proprio corpo. Ognuna del proprio.
È indubbio che il contesto di povertà possa favorire lo sfruttamento e una lesione della libertà di scegliere
La presenza di soldi non è intrinsecamente un male, non è un sintomo di schiavitù (per questo le agenzie controllano lo status economico e per questo è necessario distinguere tra un contesto più o meno libero) e se pure si volesse dire che se devi farlo per soldi allora non sei libera, non torna comunque. Perché non è così.
Ma è indubbio che il contesto di povertà possa favorire lo sfruttamento e una lesione della libertà di scegliere. C’è una discussione simile sulla possibilità di vendere i propri organi, e alcuni a favore di una commercializzazione domandano: “Siete sicuri che vietando la vendita, che sarebbe controllata e regolamentata, state proteggendo i più deboli?”.
La discussione sulla surrogata si ferma sempre sulla soglia di un’incapacità di rispondere alla seguente domanda: possiamo escludere che una donna benestante, in grado di intendere e di volere, senza necessità e senza costrizioni, scelga di portare avanti la gravidanza per qualcun altro? E se rispondessimo affermativamente, dovremmo imporre la condizione della gratuità? No, ovviamente. Quello che dovremmo fare è controllare che non vi siano abusi e violazioni, come in ogni altra situazione.
Il legame genetico
“In nome di quel determinismo che legittima la libertà femminile”, sostiene ArciLesbica nel suo articolo, “è necessario consentire che una donna al termine di una gravidanza in surrogacy, scelga di assumere il ruolo di genitore genetico e quindi di affidare chi nascerà ad altri o di poter recedere dalla volontà iniziale e tenere quel figlio o quella figlia per sé. In Italia il riduzionismo strumentale cui oggi assistiamo è un non senso, voluto per disorientare e manipolare la coscienza civile”.
Non è chiarissimo cosa si intenda qui per “determinismo”, ma si dimentica che spesso la donna che porta avanti la gravidanza non è genitore biologico (perché l’ovocita è di una terza donna o di quella che dovrebbe crescere il nascituro). Non è così importante il legame genetico, ma è utile non dimenticare pezzi in un ragionamento o scegliere concetti meno imprecisi (verosimilmente quello che si vuole dire è che durante i nove mesi di gravidanza si instaura un rapporto speciale e unico tra la donna e il nascituro, ma “genetico” non è il termine giusto per dirlo).
La presunzione di parlare in nome di tutte le donne è pericolosa e miope
Daniela Danna, in un’intervista di pochi giorni fa (Daniela Danna: Surrogata? Solo per le donne, Che Libertà, 6 novembre 2015), alla domanda “I maschi omosessuali, quindi, sarebbero esclusi dalla ‘maternità per altri’?” aveva risposto: “Il maschio per sua natura non può avere una gravidanza”.
La sua risposta è semplicemente una constatazione. Come passiamo da questa a una norma morale? È quella che a scuola si chiama fallacia naturalistica, e ci serve anche a demitizzare il concetto di natura. Che qualcosa accade non ci dice altro che questo, e non possiamo trasformare ciò che accade in ciò che è giusto, buono e bello né c’è spazio per un “quindi è ciò che deve accadere”.
E ritorna il mito dell’assenza di commercio: “Niente avvocati di mezzo, niente cliniche specializzate, niente scambio di denaro, quindi…”, chiede l’intervistatrice. “No”, risponde Daniela Danna, “la ‘maternità per altri’ nasce da uno scambio libero tra donne libere, fermo restando che, per me, conta di più la volontà della donna che ha partorito il bambino di quella che ha fornito il materiale genetico perché nove mesi di gravidanza sono sufficienti a stabilire una relazione autentica tra persone. Del resto per la legge il figlio è della madre che lo partorisce”.
La legge non poteva che essere così, quando ancora non c’era la possibilità di usare l’ovocita di qualcun altro e di far portare avanti la gravidanza a un’altra donna. Il motto mater semper certa est arriva dal diritto romano, e allora era la descrizione più esatta di quello che poteva accadere. Nel frattempo sono cambiate molte cose.
Non solo. La presunzione di parlare in nome di tutte le donne è pericolosa e miope. E la volontà di difendere le persone dalle loro stesse scelte è paternalistica e anche un po’ ridicola. La condanna della scelta di portare avanti la gravidanza per qualcun altro sembra alimentarsi anche di convinzioni stereotipate secondo cui le donne sono fragili e materne, e non possono che volersi tenere quella creatura che per nove mesi hanno tenuto nel proprio utero. Non possono che seguire strade predisegnate.
Ovvero, l’utero è mio ma decidi tu cosa devo farne.