L’utero artificiale renderà le donne più libere
L’utero artificiale è quasi sempre protagonista di visioni distopiche o scenari apocalittici. Da Aldous Huxley a Matrix, è descritto come un mezzo per alimentare soprusi e sospetto verso la tecnologia.
E se invece rappresentasse uno strumento di uguaglianza?
È da questa domanda che parte Evie Kendal in Equal opportunity and the case for state sponsored ectogenesis. Da una prospettiva femminista e liberale (sottolineo liberale in un momento in cui una parte di femminismo sembra essersi impantanata in un moralismo e in un paternalismo feroci), Kendal indaga come la gestazione e il parto impongano alle donne un peso fisico, sociale e finanziario. La disparità nella distribuzione dei rischi associati alla riproduzione è tutta a svantaggio delle donne. E non solo per i rischi di salute, ma pure per le implicazioni sociali e lavorative.
L’utero artificiale, un progetto lontano dall’essere ancora realizzabile, potrebbe consentire quell’uguaglianza che la biologia – e non solo, ovviamente – ostacola. “Nel futuro le donne potrebbero avere la possibilità di essere liberate da questi vincoli quando desiderano una famiglia”.
I rischi per la salute possono essere anche gravi. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità almeno il 15 per cento delle donne incinte affronta una qualche condizione potenzialmente mortale. Anche in paesi come l’Australia, in cui la mortalità materna è molto bassa, muoiono sette donne su centomila nati vivi. Ovviamente le morti e le complicazioni si moltiplicano in luoghi tecnologicamente meno avanzati, e per le donne che soffrono di patologie come diabete, ipertensione, sindromi autoimmuni o altre patologie croniche.
Kendal ricorda una delle morti più recenti, quella di Kimberlie Shephard, 26 anni, per una rara condizione impossibile da prevedere.
Le morti in Italia sono quattro ogni centomila nati vivi e con una forte differenza regionale secondo il Rapporto globale sulla mortalità materna.
Visione angusta
Il rischio può essere abbassato ma non eliminato e sembra essere percepito come ovvio, scontato, nulla di cui lamentarsi perché le donne lo hanno sempre affrontato e così deve essere. E se questo è l’atteggiamento per i rischi seri, figuriamoci come sono giudicate l’insofferenza o le proteste per le conseguenze meno gravi. Sono capricci, lamentele di donne viziate o infantili. Che vuoi che siano le nausee, le scomodità, le restrizioni alimentari, la richiesta di un comportamento “adatto”, il divieto di fumare e bere, l’incontinenza e tutti gli altri fastidi della gestazione. Sono naturali! E poi ti lamenti per le smagliature! Madre snaturata.
“Il dolore lega madre e bambino”, “il parto deve essere naturale” e tutte le altre scemenze retoriche cui siamo abituati sono sintomi di una visione molto angusta (scegliete pure di soffrire se volete, la questione non è ovviamente questa). I rischi sono considerati talmente scontati che il consenso informato sui pericoli della gestazione è quello più evanescente. Fanno intrinsecamente parte del pacchetto e non bisogna manco discuterne.
Ore e ore di travaglio sono quello che vi renderà una buona madre. Certo
Come reagireste se vi proponessero di fare una cura canalare senza anestesia? “Provate questo anestetico naturale, respirate, imparate dal dolore”.
Non vi convince? E perché dovrebbe farlo nel caso del parto? Perché in quel caso il dolore è sacro? E perché chiedere di non soffrire è, per molti fanatici di un’arcadia mai esistita, da smidollate?
E se non bastano le credenze degli ossessionati, c’è il fatto che – solo per fare un esempio – l’epidurale è disponibile a caso e il parto cesareo è considerato il Male, mentre ore e ore di travaglio sono quello che vi renderà una buona madre. Certo.
Non solo. Un recente articolo pubblicato sul British Journal of Anaesthesia, Failed epidural: causes and management rivela l’alta percentuale dei fallimenti dell’epidurale. Al momento, l’unico modo per evitare rischi e dolore è non portare avanti una gravidanza. E se la donna incinta scopre di avere un tumore o un’altra patologia la cui cura danneggia il feto, l’unica possibilità è scegliere tra la propria vita e quella del feto.
L’utero artificiale eliminerebbe questo dilemma, come molti anni fa ha fatto il parto cesareo – eliminando l’obbligo di scegliere se salvare la donna o il nascituro, ma presentando comunque dei rischi per la donna. L’utero artificiale permetterebbe di evitare tutti i rischi della gestazione e del parto. Kendal ricorda quello che aveva scritto Shulamith Firestone nel celebre The dialectic of sex: the case for feminist revolution del 1970: “La gravidanza è barbarica… la gravidanza è la temporanea deformazione del corpo dell’individuo per la salvezza della specie. Inoltre, il parto è doloroso”.
A quasi cinquant’anni di distanza siamo immersi nella celebrazione della maternità naturale, di quel “si è sempre fatto così” che rifiuteremmo se ci offrissero di andare a piedi invece che comodamente in automobile, e ignoriamo le implicazioni sull’ineguaglianza.
Ondata di scandalo
Kendal guarda all’ectogenesi come a un’augurabile possibilità. Le donne potrebbero scegliere di ricorrere all’utero artificiale, allargando il loro spazio di libertà. Quella libertà non sarebbe solo fisica. Il peso sociale della gestazione e della riproduzione ha effetti anche sul lavoro (alle donne è richiesto di scegliere tra carriera e famiglia molto più che agli uomini) e sul paternalismo medico. O sulla privacy: ognuno si sente in diritto di piazzarti una mano sulla pancia e di darti consigli non richiesti – è un’ossessione già diffusa e che appena sbuca un po’ di pancia diventa ineludibile.
Alle donne che non hanno figli si chiede “non hai rimpianti?”, dimenticando sempre di fare la domanda a chi i figli li ha fatti: “Non ti sei pentita?”. L’istinto materno e l’orologio biologico sono due trappole di questa visione necessaria e universale. Non è più il tempo in cui una donna senza figli era considerata matta, ma non è nemmeno il tempo in cui le scelte sono personali ed equivalenti. Essere madre è la Scelta. E se osi dire “che palle” preparati all’ondata di scandalo.
Se scegli la carriera, sei egoista e un po’ squilibrata. Sei fai un solo figlio, non gli fai il fratellino? Poi forse il cuore della questione sta nel rompere comunque le palle. Per esempio, Angelina Jolie ha troppi figli, è una madre bulimica. Gli affari vostri mai.
Non è una bacchetta magica, ma potrebbe essere un modo per attenuare la disparità di genere
Quanto agli svantaggi lavorativi, in parte possono essere connessi alla disparità biologica. Rafforzata dagli stereotipi, il risultato è che lavoro e donna incinta non vanno molto d’accordo. Lavori fino all’ottavo mese?!? Torni dopo pochi giorni? Niente va mai bene.
Se poi devi allattare, è normale considerarti il genitore principale. Quello che deve sacrificare tutto per il bene della creatura, quello che sta a casa (si pensi alla sproporzione dei congedi parentali e ai ruoli predefiniti e ancora troppo rigidi, o alla disparità di salario che rende la scelta “inevitabile”: starà a casa chi guadagna di meno, razionale no?).
L’utero artificiale non è certo una bacchetta magica, ma potrebbe essere un modo per attenuare la disparità di genere, quelle regole che sembrano uscire dall’età vittoriana e i pregiudizi che rendono spesso più difficile per le donne il rifiuto del loro destino.
E il libro di Kendal è particolarmente benefico dopo mesi e mesi di proposte deliranti di reati universali e anni in cui si continua a considerare la scienza e le tecniche riproduttive come intrinsecamente maschiliste. Vogliamo ricordare l’invito all’astensionismo durante il referendum sulla legge 40 da parte di quelle stesse che oggi urlano “divieto assoluto di maternità surrogata!”? Vogliamo ammettere che pervertire il femminismo a un “ora te lo dico io come devi vivere e cosa è giusto per te” pare l’imitazione del più tetro e noioso maschilista? E che moltissimi argomenti di queste fanatiche del reato universale sono fallaci come il pensiero magico?