La sperimentazione sugli embrioni richiede una riflessione razionale
È di un paio di mesi fa la notizia che due gruppi di ricercatori sono riusciti a osservare in laboratorio lo sviluppo di un embrione in vitro fino a 13 giorni (Alessia Deglincerti, ricercatrice e prima firmataria di Self-organization of the in vitro attached human embryo, lo spiegava qui).
L’esperimento ha riacceso la discussione sui limiti e sull’ammissibilità morale della sperimentazione embrionale. Per orientarci dobbiamo ricordare alcune premesse necessarie.
Gli embrioni usati per questa ricerca erano embrioni scartati, cioè destinati alla non esistenza.
Se davvero vogliamo proteggere gli embrioni umani, dovremmo vietare in assoluto le tecniche riproduttive. Cioè non fare come ha fatto la legge 40, che ha vietato la sperimentazione embrionale perché l’embrione godrebbe di diritti fondamentali permettendo però poi di destinarne moltissimi a morte sicura – le percentuali di successo degli impianti non sono altissime e nei tentativi muoiono moltissimi embrioni. La premessa dei difensori degli embrioni è che siano persone come noi, e ovviamente non permetteremmo di far morire una persona come noi nel tentativo di farla nascere (mi rendo conto che la frase precedente possa suonare strana, ma se un embrione prodotto in laboratorio è già una persona allora tentare di impiantarla sarà un tentativo di farla nascere).
La ricerca che distrugge gli embrioni umani la si fa o non la si fa: questo è il vero discrimine
Il limite dei 14 giorni utilizzato finora nelle sperimentazioni embrionali (negli Stati Uniti dal 1979, nel Regno Unito dal 1984) è arbitrario. Ciò non vuol dire che non abbia delle ragioni, ma che queste sono discutibili e modificabili. La formazione della stria primitiva e la conseguente incapacità dell’embrione di suddividersi in gemelli è infatti una “soglia” biologica, ma il suo significato morale è, come minimo, molto dubbio.
L’arbitrarietà è la stessa del limite dei tre mesi per abortire o del compimento della maggiore età. L’arbitrarietà è propria di ogni tentativo di tracciare una linea in un processo biologico continuo e deriva dall’emergenza di alcune caratteristiche che giudichiamo tali da giustificare le conseguenze (la possibilità di abortire, la piena responsabilità giuridica). È ovvio che quelle caratteristiche non compariranno all’improvviso ma saranno l’effetto di un processo. Ovvero: perché fino a due mesi e 28 giorni posso abortire e due giorni dopo no? Che differenza c’è tra l’embrione di 89 giorni e quello di 92? E che differenza c’è tra una persona di 18 anni e una di 17 anni, 11 mesi e 25 giorni? Se guardiamo ancora più da vicino, i confini saranno ancora più difficili da mantenere e giustificare. Dobbiamo però scegliere necessariamente un confine (è, appunto, il cosiddetto problema della soglia) e dovremmo ricordarci il suo carattere convenzionale e la sua intrinseca “imprecisione”.
Che alternativa avremmo? Non di certo sostenere che non esiste differenza tra fanciullezza ed età adulta, sebbene non ci sia un momento in cui si passa da uno stadio all’altro. Né che non esiste differenza morale – oltre che scientifica – tra una blastocisti e un feto di otto mesi. Cosa considerare rilevante è una scelta morale, che nessun avanzamento scientifico potrà far evaporare. Più informazioni avremo, meglio saremo in grado di valutare, ma decidere se è giusto sperimentare e farlo oltre i 14 giorni sarà una decisione morale. E sarebbe augurabile che non fosse ideologica e contraddittoria, ma razionale e fondata su informazioni corrette.
Nella discussione sulla sperimentazione embrionale c’è un’altra ombra: potremmo godere dei risultati che i ricercatori in altri paesi troveranno? Non sarebbe ipocrita approfittare dei vantaggi di una pratica che abbiamo vietato e giudicato moralmente ripugnante? Non è ipocrita importare le staminali prelevate dagli embrioni da quei ricercatori che vivono in paesi meno restrittivi?
Limiti razionali e giustificabili
Il proibizionismo nel dominio della ricerca scientifica solleva più domande di quante ne riesca a soddisfare. E quando si tenta di passare per illuminati sottolineando la ricerca “etica” sulle staminali adulte, per esempio, si dimostra di non capire come funziona la ricerca. Non si tratta di pretendere l’anarchia e “giocare a fare dio” (sono due delle fallacie più comuni), ma di cercare limiti meno irrazionali e ingiustificabili.
Assuntina Morresi, all’indomani della notizia della sopravvivenza in vitro di un embrione per così tanti giorni, offriva alcune delle tipiche argomentazioni zoppicanti al riguardo (Test sull’embrione e il limite di 14 giorni, 11 maggio 2016, Avvenire).
“La ricerca che distrugge gli embrioni umani la si fa o non la si fa: questo è il vero discrimine”.
Su questo Morresi ha ragione. Ma dimentica di dire – forse lo ha detto altrove? – che se prendessimo davvero sul serio questa premessa dovremmo condannare tutte le tecniche riproduttive e non solo la sperimentazione sugli embrioni (sebbene destinati all’estinzione). Come ho detto prima, anche i tentativi di impianto distruggono gli embrioni. Gli embrioni si proteggono oppure no, potremmo rispondere a Morresi e ai tanti che sembrano non vedere la contraddizione.
La vita umana di per sé non è sacra e inviolabile
“Eppure ogni tipo di ricerca su esseri senzienti – dagli animali alle sperimentazioni cliniche sugli umani – pone limiti e restrizioni, senza i quali sicuramente si avrebbero risultati più significativi dal punto di vista della mera conoscenza. Sugli embrioni umani, però, vale un altro registro”.
Peccato che gli embrioni non possano essere considerati “esseri senzienti”. Fare finta di non saperlo o di non vedere la differenza tra un animale adulto e un embrione umano chiude ogni possibile dibattito prima ancora di cominciarlo. Per essere senzienti serve un sistema nervoso centrale, anche se rozzo e primitivo. Scandalizzarsi perché si proteggono i cani e non gli embrioni umani è abbastanza ingenuo. Un cane può verosimilmente provare dolore, un embrione no. Poi si può decidere di attribuire qualche caratteristica magica agli embrioni per giustificarne l’intoccabilità, ma considerarli senzienti è un errore elementare.
“Gli esperti che ne hanno dato notizia, su Nature, auspicano che si possano evitare limiti restrittivi alla ricerca. Una ricerca che nella sua – legittima – impazienza di svelare i misteri della vita umana, sembra ormai non essere più in grado neppure di riconoscerla mentre, per scrutarla, la distrugge”.
Divieti e condanne
E qui c’è il nodo principale della discussione. La vita umana di per sé non è sacra e inviolabile. La vita umana come processo biologico non basta. La vita umana è anche un gamete o un rene cui nessuno vuole conferire diritti fondamentali. L’intenzionale ambiguità mira a far coincidere la vita umana con la vita personale (è l’infinita discussione su quando si diventa persone, cioè soggetti di diritti). Sostenere che la mera vita biologica sia sempre anche vita in senso personale presenta ostacoli insormontabili e ci condurrebbe a mettere in discussione anche il criterio di morte cerebrale.
All’estremo opposto della discussione sugli embrioni c’è infatti la questione del se e quando smettiamo di essere persone. Una risposta razionale e ormai abbastanza accettata è: quando il nostro sistema nervoso centrale è irrimediabilmente distrutto (la morte cerebrale, appunto). In questo caso siamo vivi biologicamente ma non esistiamo più come persone. Scollegare un individuo dai macchinari che lo tengono in vita non è omicidio perché quanto consideriamo prezioso e condizione necessaria della vita personale è già morto.
La posizione intransigente sulla ricerca dimentica anche i possibili esiti dei divieti e delle condanne. Soprattutto quando godiamo dei risultati – e lo stesso discorso si potrebbe fare sulla sperimentazione animale e sulla ricerca agroalimentare, e su tutta la ricerca che ci ha permesso di vivere meglio. Ma il benessere di cui godiamo a volte ci acceca e ci porta a condannare gli strumenti che ci hanno permesso di ottenere quanto diamo per scontato (vaccini, farmaci, tecniche riproduttive, macchinari vari).
In una visione new age e intrisa di pensiero magico, ci convinciamo che non serve sperimentare, ci fidiamo di espressioni che suonano bene come “staminali morali” e “metodi alternativi” senza considerare le implicazioni dei divieti e delle restrizioni, illudendoci che non ci siano conseguenze alle nostre decisioni e alle nostre premesse. Essere del tutto coerenti è forse impossibile, ma provare almeno a vedere gli effetti immediati delle nostre affermazioni – e dei divieti che sosteniamo – è doveroso.