Contrariamente a una stampa francese unanimemente entusiasta, non mi piace la retrospettiva di Robert Mappelthorpe del Grand palais di Parigi.

A differenza di quanto è successo in Italia, in Germania, nel Regno Unito e in Spagna, in Francia abbiamo dovuto aspettare un quarto di secolo dalla morte dell’artista perché un museo presentasse il suo lavoro. Certo l’esposizione è prestigiosa, a partire dal luogo che la ospita. Duecentocinquanta opere, magnifici pezzi unici, stampe raffinate, una scenografia elegante, un’illuminazione sofisticata. Insomma, bello, ben fatto, rispettabile. Anche troppo.

Cominciando (perché?) dagli ultimi anni e disperdendo qua e là gli autoritratti (un

ensemble in sé), l’insieme è scientificamente poco serio. Questa celebrazione patinata fa dimenticare, nasconde o rende incomprensibile un lavoro che fu una continua sfida alle convenzioni, una celebrazione dell’amore, del piacere, del sesso, della differenza, del diverso.

Diventato un prodotto di consumo “benpensante” questa esposizione è quantomeno un controsenso. Forse addirittura un’affermazione delle nuove forme di convenzione, di una nuova era reazionaria mascherata. Dando spazio esagerato ai fiori a colori, si smorza l’elogio del sesso nero che avrebbe potuto offendere i borghesi. Desolante.

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