Piccola scena di partenza per le vacanze. Dopo una coda estenuante in un aeroporto che l’afflusso di turisti indisciplinati rende un campo di battaglia, a bordo ci sediamo su una poltrona che obbliga a piegare le ginocchia quasi contro il petto. E ci rassegnamo all’idea di affrontare ore di scomodità.
Improvvisamente un’hostess si precipita verso uno dei passeggeri intimandogli di smetterla. Sul momento non si capisce cosa stia accadendo. Le voci si fanno grosse. Arrivano minacce da una parte e dall’altra. E a quel punto, brandito dal passeggero, si scorge un telefono cellulare, oggetto della discordia. Il signore, arrivato presto, stava serenamente filmando quello che avveniva nell’aereo, l’ingresso degli altri passeggeri, il personale di bordo. E non riusciva a comprendere perché glielo vietassero.
Per lui era normale: non vedeva alcuna violazione nell’appropriarsi, senza il minimo imbarazzo e senza l’ombra di una domanda di cortesia, dell’immagine altrui, dell’aereo e della situazione. Lo sapevamo già. Ma l’episodio riflette, in modo perfettamente aneddotico, quella che possiamo definire la dissacrazione dell’immagine, oltre che la sua banalizzazione. Il passeggero si è rifiutato di cancellare le immagini filmate e ha lanciato il telefono contro la hostess. Buone vacanze.
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