Nella conferenza stampa di ieri in cui ha confermato “con grande convinzione” la fiducia del governo per Gianni De Gennaro al vertice di Finmeccanica, Matteo Renzi ha anche detto:

Ciò che è accaduto a Genova quattordici anni fa ha colpito molti di noi. Chi allora aveva responsabilità diverse sa che quel dolore è un dolore forte. Nel mio caso personale ho assistito ai pianti di alcuni ragazzi del movimento scout che sono stati incomprensibilmente picchiati. Ho, per motivi personali, un amico di famiglia, l’appuntato Puliti, che ha rischiato di perdere un occhio, per puro caso: era un ragazzo di Rignano sull’Arno, il paese in cui io abitavo, e quindi conosco bene il dolore di quella vicenda anche per motivi personali. Ciò che è accaduto attiene a una pagina nera del nostro paese. Credo che se vogliamo affrontare questa pagina nera guardando al futuro, la cosa più logica da fare è di introdurre il reato di tortura.

Queste parole sono paradigmatiche per un paio di motivi.

Il primo è che – come spesso accade nei discorsi di Renzi – sono piuttosto vaghe. Cosa vuol dire, per esempio: “Chi aveva responsabilità diverse sa che quel dolore è un dolore forte”?

Il secondo, più interessante, è che si tratta di uno dei rarissimi casi in cui il presidente del consiglio ha detto qualcosa su quello che successe a Genova nel 2001.

Eppure, come viene naturale immaginare e come lui stesso qui conferma, Genova (quello che è diventata questa stessa parola: “Genova”) non può non far parte del suo vissuto. La generazione a cui Renzi appartiene è stata segnata da quel luglio del 2001: c’è chi traumatizzato ha smesso di fare politica, per esempio, c’è chi ha invece deciso di farla proprio portando addosso i segni di quella ferita, c’è chi ha fatto dell’elaborazione di quel G8 una chiave di volta del suo impegno.

Per molti Bolzaneto, la Diaz, la morte di Carlo Giuliani sono stati uno spartiacque e hanno segnato un passaggio generazionale, un punto di non ritorno; per Renzi evidentemente no.

Quella repressione, che viene ormai comunemente definita “macelleria messicana”, per il presidente del consiglio è una più eufemistica “pagina nera”. E non è evidentemente un caso che ieri abbia usato la parola dolore e non la parola violenza, e che abbia citato i suoi ricordi personali per esprimere una sorta di equidistanza delle vittime: gli scout in lacrime/il carabiniere colpito per caso.

Nel 2013 – quand’era ancora sindaco di Firenze – sul caso dell’espulsione di Anna Shalabayeva, scriveva nella sua newsletter:

Posso solo sperare che alla fine di questa vicenda non paghino solo le forze dell’ordine. Le forze dell’ordine in questo paese sono composte da persone perbene. Eppure quando ci sono queste vicende pagano spesso solo i pesci piccoli. Spero che non accada stavolta ciò che è accaduto a Genova, al G8. Guidavo il giornale scout Camminiamo Insieme e ricordo le testimonianze allucinanti di ciò che accadde in quelle ore. A distanza di anni devo prendere atto che funzionari che semplicemente firmarono verbali sono stati condannati alla interdizione dai pubblici uffici e si sono dovuto trovare altri lavori, mentre i loro capi no. I ministri e i parlamentari che impartivano disposizioni dalle caserme invece hanno continuato a far politica e per anni ci hanno spiegato in tv come andava il mondo. Io sto con le forze dell’ordine. Perché scaricare su servitori dello stato tutte le responsabilità senza che venga mai fuori un responsabile politico è indegno per la politica. E per l’Italia.

L’idea di una polizia coinvolta suo malgrado in quel massacro, e in parte accusata ingiustamente, torna in una dichiarazione dell’agosto del 2001, anche stavolta a difesa del suo concittadino rignanese Puliti, il carabiniere ferito negli scontri.

Il sindaco di Rignano di allora, Massimo Settimelli, aveva fatto una dichiarazione, accusando le forze dell’ordine di essere stati “incapaci”. Puliti aveva scritto una lettera aperta a Settimelli, dicendo di sentirsi offeso due volte: “Dalle sue parole si capisce che l’Arma ha mandato degli incapaci a garantire l’ordine, tra questi ci sono io, con sedici anni di servizio senza demerito, valutato dai miei superiori come ‘eccellente’ sotto il profilo professionale e addestrato per far fronte a simili circostanze”.

Matteo Renzi, allora segretario provinciale del Partito popolare, si era sentito in dovere di intervenire per una difesa d’ufficio, e aveva detto che il sindaco Settimelli aveva “perso un’ottima occasione per tacere”.

Ma forse è ancora più interessante leggere come reagì a caldo a quelle che lui stesso definisce le “testimonianze allucinanti di quelle ore”; e per far questo andare a rileggere proprio quel giornale scout di cui parla, Camminiamo Insieme, di cui era caporedattore.

Qui si trovano un po’ degli articoli, editoriali, interventi di Matteo Renzi ventenne, che allora si firmava Zac, e scriveva, nel luglio 2001:

Ora che i riflettori dei grandi vertici internazionali si sono spenti, a Genova come a Roccacannuccia Terme; ora che i temi della povertà non fanno più audience; ora che non ci sono sassaiole in piazza o sui video, ora è il nostro momento, il momento migliore per tirare fuori gli attributi.

La scelta di porsi domande non significa che non abbiamo certezze:
1) Ci sono poche cose più stupide al mondo che immaginare che si possano aiutare i poveri facendo violenza. Sprangare vetrine e bruciare macchine, ferire forze dell’ordine e mettere a fuoco città non è il modo per rispondere all’ingiustizia.
2) È stupido anche immaginare che il mondo non si possa comunque cambiare. Rassegnarsi all’impotenza significa rinunciare ad essere donne e uomini.
3) La sfida di governare la globalizzazione è la sfida di noi, giovani del 2000.

Nel 2002, invece, da responsabile della Margherita, in occasione del social forum di Firenze era dalla parte di chi voleva isolare la parte più conflittuale del movimento, e dichiarava: “Casarini ha una grande possibilità di far funzionare il forum, starsene a casa”.

Chi quattordici anni fa andò a Genova a manifestare (e non solo a Genova, ma per esempio a Napoli dove qualche mese prima ci fu una specie di prova generale di quello che poi successe al G8; oppure nelle varie città d’Italia dove dall’estate in poi ci fu un susseguirsi di iniziative spontanee o coordinate, con le forze dell’ordine schierate sempre in assetto di guerra) – soprattutto se ha quarant’anni, si è fatto un’idea molto diversa di quel momento storico.

Si veniva da un decennio di grande attivismo politico, e anche le manifestazioni a Genova prima delle cariche avevano dimostrato la forza di quel movimento che allora si definiva no global e comprendeva una gamma molto varia di realtà: dai centri sociali ai movimenti femministi, dall’area dell’ambientalismo all’associazionismo cattolico: Mani Tese, Rete Lilliput, Nigrizia, Pax Christi… Le violenze della polizia distrussero di fatto la possibilità di una radicazione di quel movimento.

Quando Matteo Renzi rievoca le origini della sua vocazione politica, ricorda spesso gli anni novanta: il massacro di Srebrenica, il genocidio del Ruanda, l’apartheid. A pensarci: tutti eventi ovviamente toccanti, ma forse proprio perché distanti nello spazio, fuori dalle possibilità di intervento. Questioni di politica estera su cui non potevamo che essere spettatori. Momenti così drammatici che – da lontano, appunto – non era e non è difficile scegliere da che parte stare.

Quello che successe a Genova invece non permette uno sguardo stupito ed elusivo, e l’invito a “guardare al futuro” lanciato da Renzi ha tutto il sapore di una rimozione pilatesca.

Così come l’idea di mettere l’accento sul dolore, senza un’analisi politica di cosa fu quel G8, è un altro modo per pensare la politica a misura delle vittime, senza ragionare sul contesto, senza storicizzare, senza riconoscere quali furono le diverse parti in gioco come le idee che le animavano, e senza chiamare in causa le responsabilità.

Certo ieri, come nel 2001 o nel 2013, Renzi pare indicarne alcune:

Perché tutte le volte è facile attribuire le responsabilità alle manifestazioni, ai manifestanti, alle forze dell’ordine. Talvolta invece bisognerebbe avere il coraggio di attribuire le responsabilità alla politica. O meglio che i politici se la assumessero questa responsabilità. Ma è del tutto evidente che nella giornata di oggi, mi sembrerebbe assurdo e inutile aprire una discussione su questo, per il rispetto che dobbiamo a Finmeccanica e ai suoi azionisti, alle persone che credono in questa società.

Ma senza nomi, senza circostanziare, ridimensionando di fatto le violenze della polizia, il suo discorso (certo rispettoso nei confronti di Finmeccanica) invece di sembrare un’accusa o quanto meno un giudizio storico, ha tutto il sapore – se non di un’indulgenza plenaria – di un invito all’oblio.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it