Sulla legge elettorale nessuno dovrebbe mettere la fiducia
Nel romanzo Infinite Jest di David Foster Wallace, c’è un personaggio chiamato Eric Clipperton che fa il tennista e si presenta in campo con una pistola in mano: se non vinco, dice agli avversari, mi sparo. Quando Matteo Renzi mette la fiducia sulla legge elettorale e lo rivendica, si comporta allo stesso modo: puerile, muscolare, ma in definitiva debole, ricattatorio, antidemocratico.
Qualcuno dei suoi compagni di partito obtortissimo collo gli voterà anche questa volta la fiducia, qualcuno – ieri Pier Luigi Bersani e Pippo Civati l’hanno dichiarato – non lo farà. Ma il risultato in entrambi casi sarà lo stesso: aver dequalificato le regole del gioco. Come Clipperton, vincerà anche questa partita; ma sarà una vittoria vile, che renderà sempre meno credibile l’azione del suo governo, e questo modo di vivere il parlamento.
L’altro ieri la ministra delle riforme, Maria Elena Boschi, ha provato a legittimare questo strappo citando una frase di José Saramago: “Noi siamo le responsabilità che ci assumiamo. Se non ci assumiamo le responsabilità forse non meritiamo di esistere”. Suona davvero strano prendere lo scrittore portoghese come riferimento nel momento in cui si sceglie di riscrivere le regole democratiche a colpi di maggioranza.
Nel suo romanzo Saggio sulla lucidità, Saramago immagina un paese in cui alle elezioni la grande maggioranza degli elettori decide di votare scheda bianca, lasciando i politici nell’impasse. “Il primo ministro riconobbe che la gravità della situazione era estrema, che la patria era stata vittima di un infame attentato contro i fondamenti basilari della democrazia rappresentativa”.
Chi attenta alla democrazia rappresentativa? Chi forza le regole o chi manifesta il dissenso? Un sondaggio di qualche giorno fa dava il Partito democratico al 35 per cento; ma la percentuale di astensionismo al 41. Quello che sta erodendo Renzi nel suo modo di governare – in nome di un’idea di democrazia che, come spesso ribadisce, per lui è solo decisione – è proprio la partecipazione democratica.
E la delegittimazione della dialettica parlamentare attraverso il ricorso alla fiducia è solo lo specchio di un più ampio disconoscimento: l’abitudine a comunicare attraverso i tweet i passaggi più delicati dell’azione di governo, l’ostilità generale verso i corpi intermedi (che siano i collegi docenti da sottomettere ai presidi o i sindacati da insultare), una ministra come Stefania Giannini che definisce chi la contesta “squadrista”. Sono tutti segnali dell’insofferenza per il confronto: la riduzione della politica a un campo in cui si gioca da soli.