A Roma può cominciare una politica nuova
Le dimissioni di Ignazio Marino da sindaco di Roma hanno funzionato negli ultimi giorni da macchia di Rorschach. Un test psicologico di base, in cui ognuno ha visto quel che voleva.
Sia chi l’ha attaccato: i dirigenti del Partito democratico che hanno pensato di poterlo finalmente scaricare (Matteo Renzi: “Si è rotto il rapporto tra il Campidoglio e la città”) e legittimare il potere di un partito capace di sciogliere una giunta e di accreditarsi come vero artefice del cambiamento; il Vaticano con le sue dichiarazioni ufficiali ferali (il cardinale Vallini: “Occorre ripartire dalle molte risorse religiose e civili presenti a Roma per realizzare la formazione di una nuova classe dirigente nella politica”); i movimenti gentisti stranamente accomunati – pentastellati e postfascisti come Fratelli d’Italia, Casapound e Salvini – che si sono fatti bandiera di un malcontento da popolo degli onesti; i giornali – uno strano connubio trasversale, da la Repubblica al Tempo – che hanno condotto una campagna contro il sindaco di una violenza raramente usata, per farne una macchietta impresentabile.
Populismi contrapposti
Sia chi l’ha difeso: migliaia di persone l’altro ieri al Campidoglio, decine di migliaia a firmare petizioni perché ritirasse le dimissioni, personaggi pubblici iper-romani – Alessandro Gassman, Sabrina Ferilli – a riconoscergli sui social l’onore delle armi, a condividere l’elenco delle gesta e a ritagliargli un profilo eroico, da vittima sacrificale della politica consociativa, della partitocrazia corrotta, dell’interventismo vaticano.
Mai come questa volta si era visto un tale scontrarsi di populismi contrapposti, di appelli alla piazza, di retoriche emotive perfettamente speculari.
Non mollare, vattene.
Pianti, indignazioni, solidarietà, vittimismi, ritorno dei tribuni, cittadinanze attive. Mobilitazioni inedite come quella di domenica nata dall’iniziativa di tre ragazze su Facebook che non solo hanno bypassato l’organizzazione dei partiti, dei movimenti e dei giornali, ma che erano contro i partiti, i movimenti, i giornali (come ha ben colto Arianna Ciccone): più spontanei dei grillini, più infiammati del Fatto Quotidiano.
Lo slogan con cui due anni fa vinse le elezioni – ‘Non è politica, è Roma’ – oggi potrebbe suonare profetico
Non ha importato nemmeno più entrare nel merito delle responsabilità che sono state affibbiate a Marino – compresa la vicenda degli scontrini che è stata quella fatale e che si è rivelata invece molto debole come accusa.
Il vento del gentismo ha soffiato e continua a soffiare in tutte le direzioni, producendo una tempesta perfetta.
E anche le analisi che hanno provato ad analizzare il caso come specchio di altro hanno peccato quasi tutte di autoverificazione, e forse si possono leggere più come proiezioni che come diagnosi.
Matteo Orfini sul suo profilo Facebook e Antonio Polito sul Corriere della Sera, per esempio, attribuiscono alla sudditanza nei confronti dell’antipolitica la ragione principale della rovina di Marino: ci sarebbe voluta più competenza, fare meno i “marziani” e fidarsi di più dei partiti.
Sandro Medici sul manifesto vede in questa débâcle la fine della possibilità delle alleanze del centrosinistra: “Difenderlo oggi perché chi l’ha costretto ad andarsene è peggiore di lui, appare francamente un ingenuo esercizio consolatorio, oltreché reticente e malinteso. In questa vicenda del centrosinistra romano, Marino si è sicuramente dimostrato come il male minore, ma in un contesto politico che resta inaccettabile e da cui è necessario allontanarsi definitivamente”.
Mattia Feltri sulla Stampa addirittura ritiene il sindaco, ormai ex, non troppo colpevole ma martire di una città ingovernabile per le colpe degli stessi cittadini, posseduti da una sorta di infernale genius loci: siamo gente – noi romani – irredimibile, che per natura insozza, parcheggia implacabilmente in doppia fila, se ne frega del contesto civile.
E potremmo continuare.
Il fenomeno Marino è complesso da analizzare, e l’esito politico e sociale che ne scaturirà è ancora più oscuro da prevedere, perché l’orizzonte che ha aperto è veramente tutto postideologico. Del resto, lo slogan con cui due anni fa vinse le elezioni – “Non è politica, è Roma” – oggi potrebbe suonare profetico.
Le persone sono divise tra quelle che possono vivere la città, e votano a sinistra, e quelle che non possono farlo, e votano a destra
Ma se abbassiamo il volume ai toni da melodramma di questa opera disastrosa, possiamo ricavarne qualche dato. Per farlo dobbiamo puntare la lente sulle questioni che la contraddittoria esperienza di Marino ha lasciato sullo sfondo: ossia quali sono le condizioni di Roma, che città è, quali sono i suoi bisogni – al di là delle “strade e i giardini da sistemare”, come scriveva con un tono davvero stucchevole qualche giorno fa sull’Unità Matteo Renzi.
La città delle disuguaglianze
Molte delle riflessioni politiche più acute e complessive fatte su Roma negli ultimi anni, da quelle di Paolo Berdini a quelle di Francesco Erbani, arrivano alla stessa conclusione: Roma è una città con un tasso di disuguaglianza tale tra centro e periferie per cui potremmo affermare di avere a che fare con due città. Un interessante saggio di politica economica di Federico Tomassi, Disuguaglianze, beni relazionali ed elezioni nelle periferie di Roma conferma quest’idea con dati molto chiari.
Per esempio? Il reddito medio pro capite di zone come Pinciano o Torrino è il doppio di quello di Torre Maura o Settecamini: quasi 30mila euro contro meno di 15mila.
Ancora: in una città dove la popolazione è rimasta sostanziamente stabile (2,7 milioni) si è continuato a costruire moltissimo, ma paradossalmente c’è stata un’insensata impennata nel costo degli affitti (e una conseguente sperequazione), un progressivo spostamento degli abitanti verso la periferia esterna al Grande raccordo anulare e i comuni della provincia (200mila tra il 1991 e il 2007), la creazione di “una sconfinata periferia metropolitana”, un’urbanizzazione regionale ancora più sfilacciata, con nuovi quartieri circondati da terreni agricoli e isolati fisicamente dal resto della città.
A Roma, anche quando lo storico abusivismo edilizio si è ridotto (negli anni settanta vivevano in case abusive circa 700mila persone), la trasformazione urbana ha coinciso comunque con una cementificazione massiva e diffusa senza un progetto di città.
E questo processo – va sottolineato – non è avvenuto per sviluppo spontaneo o per mancanza di controllo, ma secondo un indirizzo politico che il penultimo sindaco, Gianni Alemanno, ha avuto anche la sfrontatezza di battezzare “moneta urbanistica”. Ossia, l’idea di ingrassare le casse del comune concedendo sistematicamente nuovi permessi edilizi in cambio di microelargizioni dai palazzinari, che s’impegnavano a finanziare servizi che poi alla fine non hanno realizzato.
Ancora: la mancanza di una rete di trasporti degna ha finito per certificare la separazione delle due città, il centro storico gentrificato sempre più simile a un fondale (istruttiva la lettura che ne dà, in Gentrification, Giovanni Semi) e una periferia immensa, uno sprawl indefinito che non smette di morire sulla linea dell’orizzonte nell’agro romano.
Ma questa polarità non va intesa solo nel senso di una divisione tra ricchi e poveri, ci tiene a evidenziare Tomassi, quanto piuttosto tra persone che possono vivere la città, farne esperienza, creare relazioni, costituire una cittadinanza, e quelle che non possono farlo: perché abitano lontano dai grandi e piccoli eventi, non usano i servizi pubblici di alta qualità del centro (un museo, una biblioteca, un teatro, i monumenti, le strade, quella grande bellezza che riescono al massimo a vedere in dvd), sono forzati dell’automobile, sforniti sia di servizi di base sia di spazi pubblici e collettivi.
L’indagine di Tomassi ci rivela un aspetto molto eloquente: che finora i primi hanno votato a sinistra, i secondi a destra; con scarti differenziali del 15 e del 20 per cento proprio considerando questi parametri. Il centro, con il suo Auditorium e le sue strisce blu, ha votato il centrosinistra, la periferia, senza piazze, che si affolla sui trenini metropolitani inadeguati, ha votato il centrodestra. Ed è molto probabile che questa tendenza si accentuerà.
La domanda politica che proviene dal basso è un’altra e la giunta Marino l’ha intercettata purtroppo solo in parte
Il consenso per il centrosinistra nei quartieri un tempo popolari è stato e continua a essere eroso ogni giorno di più. E questo perché c’è un’ampia fascia di persone che sente di non avere accesso alla città, ostacolata nel reddito, nella sicurezza del welfare, nei servizi, nei suoi bisogni di relazione.
Ecco che – considerata da questa prospettiva – capiamo perché non ci dice molto, non chiarisce, non definisce delle aree politiche, la separazione tra sostenitori e avversari di Marino, tra partitici e antipartitici, tra vecchie e nuove facce, tra chi ama i marziani e chi apprezza coloro che mantengono i piedi per terra.
La domanda politica che proviene dal basso è un’altra, e la giunta Marino – che ha dato la priorità ai suoi sacrosanti provvedimenti di lotta alla corruzione e alle sacche di abusivismo e illegalità – l’ha intercettata purtroppo solo in parte, e non solo per limiti personali.
E la stessa cosa probabilmente accadrà a chi gli succederà, a cominciare da un inutile commissario per una città alla quale finora non sono mancate le gestioni emergenziali ma le visioni politiche, e soprattutto democrazia e luoghi di partecipazione.
È significativo che a questo tipo di conclusioni arrivi chi – cercando più l’analisi che il consenso a tutti i costi – ha avuto a che fare con l’amministrazione pubblica e con le sue sclerosi.
Qualche giorno fa, con un tempismo quasi paradossale, Flavia Barca, ex assessora della prima giunta Marino, ha pubblicato un ebook, Le politiche culturali a Roma, in cui tra le molte cose interessanti sottolinea chiaramente un’evidenza: che occorre un metodo per capitalizzare quello che si muove accanto, oltre, sotto, anche contro, la politica dei partiti, altrimenti quest’energia sarà dispersa o arriverà a tramutarsi in un ribollire di sterile rancore:
Il tema della fiducia è importante nella costruzione delle politiche pubbliche. È difficile distinguere il grano dal loglio. Ovvero i cittadini attivi desiderosi di mettere la propria esperienza a servizio dell’amministrazione, dai rentiers e dai feudatari, ovvero coloro che premono per favori e privilegi.
Il libro di Barca ha varie affinità con un altro ebook, scritto dal politico che, se decidesse di prestarsi, sarebbe il migliore candidato a sindaco di Roma che la sinistra ha a disposizione, cioè Walter Tocci, vicesindaco della prima giunta Rutelli, ma soprattutto ultimo amministratore intellettuale che ha continuato negli ultimi vent’anni a cercare di capire i mutamenti profondi di questa città (rileggete la bellissima intervista che gli fece qualche anno fa Francesco Raparelli).
Tra le varie considerazioni che mette in fila nel suo Roma, non si piange su una città coloniale ce ne sono almeno tre che dovrebbero comporre l’ordine del giorno di qualunque dibattito politico a cui assisteremo nei prossimi mesi in attesa di un nuovo sindaco.
Primo, non è rimandabile una cura del ferro per i trasporti (come sta avvenendo per esempio a Napoli, o come era stata elaborata nel precedente libro di Tocci Avanti c’è posto)
Secondo, occorre immaginare una nuova forma amministrativa – la regione capitale – che sostituisca il comune, la città metropolitana e la regione: Roma è di fatto una città che ha antropizzato un’area grande quanto il Lazio ormai, e queste tre macchine amministrative si sovrappongono e sono tutte e tre inefficienti e inceppate.
Soprattutto si eliminerebbe il macigno del Comune di Roma che ha sempre bloccato intorno al Gra la trasformazione urbanistica espellendo frammenti di periferia al suo esterno. Questo è il vincolo che da trent’anni impedisce una pianificazione dell’area metropolitana romana. L’amministrazione capitolina è troppo piccola per governare i processi sociali ed economici che ormai hanno travalicato i suoi confini, ma è troppo forte politicamente per lasciare che siano gli altri livelli istituzionali a pianificare l’area vasta.
Terzo, pensare Roma come un grande laboratorio culturale e intellettuale. Tocci cita addirittura il programma di Quintino Sella, il ministro ottocentesco che voleva fare della nuova capitale il luogo del cozzo delle idee, un grande centro di università, di accademie e di strutture di produzione del sapere moderno.
Certo, per questo tipo di ambizione è necessaria un po’ di speranza e non solo questa grande risacca di risentimenti contrapposti.