Si comincia a discutere sulle regole quando le cose non vanno e non si ha la forza – il coraggio, l’intelligenza – di confrontarsi di più sulle idee. Il referendum del 4 dicembre è diventato nel corso di quest’anno l’espressione evidente di un paradosso politico: di fronte a una disaffezione sempre più clamorosa per i partiti e per tutti i cosiddetti corpi intermedi, si è pensato di mettere in scena un derby sulla costituzione, con una mobilitazione di massa che forse avrebbe meritato migliori cause.
Dallo ius soli alla riforma delle carceri, dalla legalizzazione della cannabis all’introduzione del reato di tortura, ci sono tantissimi temi su cui lo spirito riformatore di questo governo si è dimostrato molto meno innovativo di quanto continua a dichiarare a parole, senza contare che anche quelle riforme su cui ha investito di più – come il jobs act o la Buona scuola – stanno rivelando, già dopo un anno, tanti dei limiti di efficacia che ne evidenziavano i loro critici.
Matteo Renzi è anche riuscito a imporre una separazione del campo politico in un modo inedito rispetto alla polarità della seconda repubblica – ossia centrosinistra versus centrodestra – e l’ha fatto usando una consultazione che avrebbe dovuto provare invece a unire ideologie contrapposte.
Questo referendum nei fatti è un’elezione politica: da una parte è schierato il Partito democratico di fede renziana e qualche partitino che appoggia questo governo (l’Ala di Denis Verdini e l’Ncd di Angelino Alfano), dall’altra una compagine articolatissima (minoranza Pd, buona parte della sinistra parlamentare ed extraparlamentare, quel che resta di Scelta civica, la Lega, il Movimento 5 stelle).
La divisione è anche nella società: per esempio Confindustria e Cgil hanno fatto dichiarazioni di voto opposte, la prima schierandosi per il sì e la seconda per il no.
Contestazioni di metodo
Così qualunque sarà l’esito del 4 dicembre, le sue conseguenze renderanno eclatante quanto non sia stata una buona idea politicizzare e rendere così divisivo un referendum costituzionale.
È sicuro che la disinvoltura – diciamo l’azzardo – di Matteo Renzi sia stata evidentemente calcolata: il proposito di legittimare il suo governo attraverso tre eventi che sono diversi da un’elezione parlamentare. Ed ecco che abbiamo avuto la vittoria alle primarie del Pd, poi il voto europeo e ora il referendum. E le voci che suggeriscono le sue eventuali dimissioni in questa settimana confermano solo questa idea pokeristica del potere renziano.
Questa è la prima contestazione di metodo che si può fare; è pure vero che se il sì dovesse perdere con una percentuale significativa – per esempio il 40 per cento – da un punto di vista del consenso nei confronti di Renzi sarebbe addirittura un risultato comunque alto.
La seconda contestazione di metodo è la speciosità di un quesito che sulla scheda è posto in modo molto netto e accattivante, ma che non riflette la complessità e certe ambiguità del testo della riforma. Ci sono state parecchie obiezioni su questo punto – addirittura ricorsi. Si può citare un giurista di valore come Luigi Ferrajoli sul tema: “Questa lettura e questa conoscenza saranno impedite ai cittadini dal quesito ingannevole e accattivante su cui saranno chiamati a votare, trasmesso ossessivamente in televisione e perciò in grado di compromettere l’autenticità del voto: ‘Approvate… il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi’ della politica e altre piacevolezze. I contenuti della legge sono infatti, come i pochi informati ben sanno, assai più gravi e certamente diversi. […] Ciò su cui i cittadini voteranno non è il titolo della legge di revisione, ma le norme in essa contenute”.
La fine del bicameralismo perfetto lascia davanti a sé un vuoto normativo e politico
Un terzo elemento distorsivo – di metodo anche questo – è il testo confuso della riforma. Si deve votare sì o no avendo davanti un testo con molti elementi disomogenei: si potrebbe essere in disaccordo, per dire, sulla diminuzione del numero dei senatori, ma d’accordo sulla revisione del titolo quinto. È abbastanza lampante che il referendum propone delle modifiche strutturali che rendono davvero impegnativo farsi un’opinione sulle conseguenze per la vita democratica futura dell’Italia (la riforma del senato, appunto), e altre modifiche più marginali (la soppressione del Cnel, per esempio) che si potevano ottenere con l’azione legislativa del parlamento, se il governo avesse lavorato per costruire una maggioranza più ampia, quella dei due terzi necessaria per non indire il referendum.
Un quarto elemento di ambiguità di questo referendum – sempre di metodo parliamo – è che la fine del bicameralismo perfetto, o paritario che dir si voglia, lascia davanti a sé un vuoto normativo e politico e i promotori della riforma non hanno proposto molto per colmarlo. Al senato resteranno alcune prerogative legislative (secondo il comitato del sì si tratta di nemmeno il 3 per cento delle leggi), il che induce alcuni a pensare come sia inutile questo senato; altri – compreso chi scrive – a quanto sia stato poco preso in considerazione un sistema di checks and balances (pesi e contrappesi istituzionali); altri ancora a sottolineare quanto sarà complicato gestire i contenziosi tra le competenze della camera e del nuovo senato.
Dobbiamo osservare con un sano scetticismo la bizzarria di una campagna elettorale accanita
Le obiezioni di metodo potrebbero essere ancora molte. Una, quasi didascalica, riguarda il nome del senato: avrebbe ancora senso chiamare così una camera dove potrebbero essere eletti anche dei diciottenni? Un’altra è quella sollevata da Michele Ainis riguardo a una contraddizione nascosta tra le pieghe del testo Boschi: il ridimensionamento dei poteri regionali (la parte sul titolo quinto) lascia fuori le autonomie regionali, che anzi – in virtù di una legge del 2015 che impedisce di legiferare sulle regioni a statuto speciale senza il consenso delle stesse – uscirebbero ulteriormente rafforzate da questa riforma costituzionale, in un paradosso per cui le leggi delle province autonome di Trento o di Bolzano conterebbero più della costituzione italiana.
Si potrebbe continuare elencando i dubbi sul “merito” della riforma – il più consistente è quello secondo cui forse non è vero che avere due camere che fanno lo stesso lavoro rallenta il ritmo dell’approvazione delle nostre leggi, o ne riduce il numero. I dati di Openpolis ci dicono che nell’ultimo anno solo il 20 per cento delle leggi approvate ha richiesto due letture, che le leggi proposte dal governo hanno avuto una gestazione parlamentare media decisamente breve (156 giorni) e che in Italia si producono molte più leggi che in Francia e in Germania.
Oppure potremmo adeguarci allo stile del dibattito soprattutto delle ultime settimane che ha cercato di legittimare lo status di strumentalizzazione politica di questa consultazione. L’editoriale di Francesco Costa sul Post per esempio ne è la sintesi arresa, in cui partendo da questo genere di premesse – “Apprezzo le buone intenzioni di chi ha insistito e insiste perché la campagna elettorale in vista del 4 dicembre si concentri sull’oggetto ufficiale della questione – la riforma costituzionale approvata dal Parlamento – e non sulle guerre personali e gli scenari politici del futuro, ma sono arrivato a una conclusione: il 4 dicembre si vota sulle guerre personali e gli scenari politici del futuro” – arriva a scrivere un superspot per il sì: “Gli anti-Renzi che non sono leghisti né grillini, ma vorrebbero poter votare partiti migliori anche per avere più possibilità di battere Renzi o condizionarlo, dovrebbero votare Sì persino con più entusiasmo di quelli del Pd”.
Ma forse la mossa migliore da fare in questa scacchiera del referendum è quella del cavallo, ossia provare a osservare dall’esterno, con un sano scetticismo, la bizzarria di una campagna elettorale accanita, violenta, polarizzata, in una fase in cui la crisi della politica è a uno dei suoi massimi storici. E porci qualche interrogativo.
Alle elezioni politiche del 1948 (le prime con la costituzione italiana) andò a votare il 92,2 per cento degli aventi diritto, nel 1992 eravamo scesi all’87,3 per cento, nel 2008 al 78,1, nel 2013 al 72,2: davvero il problema principale di questo paese è la governabilità e non la rappresentanza e la partecipazione?
Una crisi politica è stata trasformata in una crisi costituzionale
Quando nel 2013 l’attuale presidente del consiglio Matteo Renzi conquistò la segreteria del Partito democratico poteva contare su 539mila iscritti, nel 2015 sono stati 385mila (nel 2009, al momento della fondazione, erano 831mila). L’ambizione di rinnovamento di un partito – la rottamazione e via dicendo – ha coinciso con la disaffezione.
Le cose non vanno meglio nelle altre formazioni politiche: Forza Italia e la Lega dichiarano entrambi poco più di centomila iscritti, Sel solo 3.600 ossia addirittura meno di Possibile (il movimento di Pippo Civati) che ne ha 4.800, il Movimento 5 stelle non dà dati ufficiali – l’ultimo a tirare fuori un numero è stato Roberto Casaleggio un anno fa che diceva 130mila. In Italia meno di un milione di persone è militante di un qualche movimento o partito: davvero il problema principale di questo paese sono le regole e non l’impegno attivo, la costruzione del consenso?
Questa fragrante crisi non sarà risolta attraverso la modifica del testo costituzionale, ma cominciando ad analizzarne e a contrastarne le ragioni sociali economiche e politiche. Sul suo blog, il senatore Walter Tocci, coordinatore da anni del Centro studi di iniziative per la riforma dello stato (Crs), ha scritto una lunga disamina su questo voto, sottolineando come sia proprio il misconoscimento della crisi della democrazia a far immaginare soluzioni che invece sono solo sintomi.
L’equivoco estremo
Se si rimuovono le cause storico-politiche, il riformismo istituzionale diventa una metafisica senza tempo e senza realtà. Tutto è cominciato quando sono finiti i vecchi partiti, che nel bene e nel male avevano governato il paese, sia in maggioranza sia dall’opposizione. Da allora il ceto politico non ha saputo o non ha voluto rigenerare le strutture politiche adeguandole ai nuovi tempi e ha scaricato tale incapacità sulle istituzioni. Una crisi politica è stata trasformata in una crisi costituzionale. Alcuni politici si sono dati l’alibi dicendo che volevano spostare le montagne ma le procedure parlamentari lo impedivano. “Da molto tempo l’Italia non riesce ad aprirsi al mondo nuovo, non accede alla società della conoscenza, eppure il discorso pubblico di destra e di sinistra si occupa di un piccolo problema di tecnica parlamentare, fino a ingigantirlo come il principale ostacolo da rimuovere sulla via del progresso”.
L’estremo equivoco, dunque, è quello in base al quale bisognerebbe votare sì a questo referendum per senso di responsabilità, per evitare il tracollo di un paese indebitatissimo e che precipiterebbe nell’instabilità economica e quindi politica e poi sociale, e sarebbe spazzato da un’onda di speculazione internazionale; avvisaglia di quest’eventualità spaventosa sarebbe già l’aumento dello spread e il calo in borsa delle azioni di varie banche più esposte tra cui il Monte dei Paschi di Siena in quest’ultima settimana. È l’allarme del Financial Times, ed è l’ennesima versione del ricatto che l’autonomia politica, e addirittura quella costituzionale, finisce con il subire da elementi contingenti.
Sarebbe insomma davvero un brutto scenario se l’esito del voto – nel merito costituzionale e nel suo significato politico – fosse comunque ignorato come è accaduto al referendum greco dell’estate del 2015, in nome di un dover essere della storia che è davvero la fine della politica come l’abbiamo conosciuta: l’abdicazione a quella “nuova ragione del mondo” come la definiscono Pierre Dardot e Christian Laval, che nel loro ultimo libro appena uscito in Italia, Guerra alla democrazia, immaginano che le proposte di modificare le costituzioni in Europa saranno costanti nei prossimi anni.
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