L’Italia sta diventando un paese dove fare ricerca è sempre più difficile. I mesi di confinamento hanno dimostrato la necessità di una classe politica competente e preparata, con la conseguente importanza data ai comitati tecnicoscientifici, ai commissari, ai consulenti, alle task force. Ma al tempo stesso hanno reso evidente che la ricerca e l’università non sono una priorità tra le politiche di questo governo.

Il ministero della scuola e quello dell’università si sono impegnati per capire come compensare attraverso la didattica a distanza la mancanza di lezioni e come riuscire a tornare il prima possibile a una didattica in presenza.

Ma la popolazione universitaria è composta anche da migliaia di persone che fanno ricerca. Anche se sono sempre meno, e sempre meno valorizzate: un’indagine dell’Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia (Adi) mostrava che dal 2007 al 2018 i posti di dottorato si siano ridotti del 43,4 per cento a causa dei tagli drastici che i governi hanno fatto all’università. Non va meglio ai ricercatori post-dottorato: il 56,2 per cento è destinato a uscire dal mondo accademico dopo uno o più assegni; tra loro, il 29 per cento dopo un contratto di ricercatore a tempo determinato. In totale, il 90,5 per cento degli assegnisti viene espulso dall’università.

Situazione sempre più critica
I fondi che hanno i dottorati e i ricercatori sono sempre meno e distribuiti sempre peggio. Esiste, com’è noto, l’istituto avvilente del dottorato senza borsa; poi ci sono le tasse universitarie che i ricercatori spesso devono pagare; mentre i finanziamenti per le borse all’estero sono esigui. Il risultato è che fare ricerca in Italia è possibile quasi solo per chi se lo può permettere, perché ha altre entrate o perché ha una famiglia che lo aiuta.

La pandemia sta rendendo sempre più critica questa situazione. Molti, già incerti se proseguire nella ricerca, non potranno più farlo, perché sanno di andare incontro a un percorso dispendioso, perché sarà più difficile trovare altre entrate, perché tante famiglie avranno più difficoltà rispetto al passato.

A questo si deve aggiungere un altro problema: al momento l’impossibilità di fare ricerca è letterale. Da marzo tante biblioteche e tanti archivi sono inaccessibili. Qualche giorno fa lo storico Alessandro Marzo Magno ha scritto una lettera accorata al ministro dei beni culturali Dario Franceschini:

Caro ministro Franceschini,
faccio parte di quel manipolo di originaloni che frequenta biblioteche e archivi (…). Ufficialmente sono stati riaperti dopo la chiusura imposta dalle misure per contrastare il covid-19. In pratica però le cose non sono così semplici. Bisogna prenotarsi, e va bene, il 1 luglio ho inoltrato domanda all’archivio di stato di Venezia: primo posto disponibile il 17 luglio. Nel sito dell’archivio c’è scritto che nella sala studio, in tempi normali, sono disponibili 72 posti, ora sono ammesse 10 persone. L’orario è stato ridotto dalle 9 alle 14 (prima era 8.10-17.50). I pezzi (così si chiamano i faldoni di documenti) richiesti devono stare in quarantena, ovvero se non finisco di consultare una filza in giornata, posso rivederla soltanto tra sette giorni (fino al 1 luglio erano dieci giorni), ammesso che ci sia posto in sala studio.

L’esempio di Marzo Magno non è un’eccezione: i posti disponibili per la consultazione anche nelle più importanti biblioteche nazionali o nei principali archivi di stato sono ridotti a poche unità, per occuparli bisogna prenotare settimane prima, e la quantità di documenti consultabile è talmente limitata che è davvero difficile poter definire ricerca un lavoro simile.

Una lettera analoga a quella di Marzo Magno è stata scritta collettivamente – e indirizzata anche questa a Franceschini – dagli studiosi di storia dell’arte.

Gli orari limitati e gli incomprensibili altri impedimenti ci sembra vadano a colpire un settore, quello dello studio nelle biblioteche, vitale per il mondo della ricerca e dell’insegnamento, in particolare quello universitario che i firmatari di questa lettera rappresentano. Dottorati, progetti, e ogni tipo di pubblicazione scientifica non solo accademica, ma museale e conservativa sono bloccati da mesi, e nessuna autorità ha ancora previsto e comunicato quale sia l’orizzonte con cui la comunità scientifica deve misurarsi. Il timore è che questo settore venga lasciato indietro perché non direttamente connesso alle strutture del commercio e della produzione industriale.

C’è da aggiungere che se alcuni dottorandi, docenti e ricercatori provano ad arrangiarsi malamente tra questi ostacoli, ce ne sono alcuni che si trovano in una condizione di assoluto stallo: immaginate semplicemente un letterato che si trovava a fare ricerca all’estero, o un antropologo che si trovava a metà di un’indagine sul campo.

Alla Sapienza, l’università più grande d’Italia, i dottorandi si sono riuniti per chiedere un confronto con il senato accademico, organizzando un presidio che si terrà il 23 luglio alle 9.30 in piazza Aldo Moro a Roma. Intanto, 713 fra loro hanno firmato una lettera aperta che fotografa l’avvilente stato dell’arte:

La congiuntura internazionale del covid-19 ha costretto la maggior parte dei dottorandi a un’interruzione delle attività di ricerca sotto molteplici e fondamentali aspetti: ricerca sul campo; accesso ai laboratori, missioni all’estero, lettura, schedatura e consultazione di fonti d’archivio o di altri materiali indispensabili; spoglio delle pubblicazioni non recenti come nel caso dei periodici e delle fonti testuali non digitalizzate; compilazione di appunti e bozze necessari alla stesura della tesi o di altre pubblicazioni connesse all’esercizio della formazione dottorale; partecipazione a convegni, seminari, workshop formativi, ecc. Il diritto all’accesso e/o alla fruizione ne risulta gravemente compromesso.

Il governo, nel cosiddetto decreto Rilancio, ha annunciato una proroga retribuita solo per i dottorandi del 33° ciclo, quelli che hanno vinto la borsa due anni fa (mentre non si fa cenno a quelli degli altri cicli, a quelli senza borsa, a quelli che collaborano con le università straniere e ai dipendenti pubblici in aspettativa). Ma soprattutto non si tiene conto che da marzo a settembre 2020 la ricerca, in queste condizioni, è impossibile. Estendere la borsa a tutti – almeno fino a sei mesi – è il minimo per garantire da una parte il diritto alla ricerca, dall’altra una qualità dignitosa delle ricerche. Altrimenti il rischio serio è che dottorandi, assegnisti, professori rinuncino in massa al loro percorso, ritrovandoci in un paese senza più ricerca.

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