Molte delle serie per adolescenti ambientate a scuola sono costruite un po’ come i Peanuts: gli adulti non contano. In Stranger things o in Elite, come nelle italiane Baby o Skam (tutte su Netflix), è importante sempre il punto di vista dei ragazzi. Il mondo dei grandi spesso è un ostacolo ai desideri, un fronte d’incomprensione con cui al massimo ci si confronta attraverso conflitti frustranti, cercando di non schiantarcisi contro.

La scuola è quasi sempre uno sfondo: un edificio o un contesto in cui avvengono le cose, e nella maggior parte dei casi quelle importanti avvengono di nascosto, sottobanco. In queste serie si parla raramente di docenti e d’insegnamento. Al centro delle storie ci sono le relazioni complicate tra i ragazzi, e anche quando le storie coinvolgono i professori, in genere trattano tematiche socioeducative più che l’apprendimento: per esempio l’inserimento in una classe nuova, l’uso di sostanze, il razzismo, il bullismo.

Proprio per questo spicca un recente esempio in controtendenza: Il caos dopo di te. Scritta da Pablo Montero, già autore di Elite, è una serie crime spagnola ambientata in un liceo di Novariz, una cittadina immaginaria della provincia galiziana, una zona dove negli ultimi anni sono aumentate le disuguaglianze sociali. Al liceo arriva una supplente di lettere, Raquel (Inma Cuesta), per sostituire Viruca (Bárbara Lennie), un’insegnante trovata morta alcune settimane prima per un presunto suicidio.

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La trama è incentrata su questo mistero. Nel montaggio si alternano due livelli temporali: la storia degli ultimi giorni di Viruca e quella delle indagini sulla sua morte, ostacolate dai tentativi di insabbiare il caso. Ma è possibile seguire la serie concentrandosi su un altro piano di lettura. Finalmente vediamo in scena, al centro della scena, le ore di lezione: spiegazioni, compiti in classe, interrogazioni, campanelle. Viruca è un’insegnante fuori dal comune. Appena entra in classe conquista la fiducia dei suoi studenti. Come fa? Gli chiede di raccontare un episodio intimo della loro vita, e lei stessa rivela un vecchio episodio doloroso, confessando di non averne praticamente mai parlato fino a quel momento. Partiamo da voi, è il messaggio implicito di Viruca.

Questo metodo ardito sembra avere effetto: tutti si appassionano alla lingua e alla letteratura spagnola, tutti amano Viruca e quello che insegna. Per molti studenti è la prima volta che qualcuno s’interessa a loro così profondamente. È altrettanto incredibile – anche questo è un colpo da maestra di Viruca – come nelle pagine dei romanzi e delle poesie si possa trovare qualcosa che risponda tanto al disordine emotivo dei pensieri degli adolescenti.

Viruca somiglia un po’ al professor Keating dell’Attimo fuggente, ma a differenza del personaggio interpretato da Robin Williams non sembra solo un’anticonformista: altrettanto maieutica e seducente, cerca una confidenza con gli studenti che chiaramente rischia di sconfinare nella seduzione, nel plagio. Fino a che punto un professore può usare un armamentario che sulla scorta della pedagogia platonica definiremmo erotico per conquistare i suoi studenti, per appassionarli alla letteratura o all’arte?

Raquel è un’insegnante molto diversa da Viruca. Non ha lo stesso carisma, forse neanche la stessa preparazione, e rischia di fallire a ogni lezione. I ragazzi la sfidano, mettono in discussione i suoi metodi, minano la sua autorevolezza. Lo sforzo di Raquel per riuscire a fare bene il suo mestiere è raccontato in modo molto interessante. Le questioni che affronta sono comuni a chiunque abbia a che fare con gli studenti delle superiori: si può rispondere al ricatto del disinteresse da parte dei ragazzi con il ricatto del voto? Come si fa a recuperare il rispetto quando si è fatto un errore grossolano con la propria classe? Come si può interagire con dei ragazzi che hanno idee politiche e convinzioni morali molto distanti da noi? Qual è il confine tra la familiarità e la confidenza che si crea nella quotidianità di una relazione educativa?

Alunni intraprendenti
Sono gli stessi interrogativi che si pongono in modo ancora più esplicito sia un film uscito in Francia due anni fa, L’ultima ora, di Sébastien Marnier, sia una serie danese di cinque stagioni trasmessa su Netflix (l’ultima stagione è disponibile da pochi mesi), Rita, scritta da Christian Torpe.

Anche in L’ultima ora, – che è un giallo con un meccanismo simile a Il caos dopo di te – il protagonista è un supplente che va a insegnare lettere, cioè francese, in un prestigioso liceo sperimentale per sostituire un collega, che è in coma dopo aver tentato il suicidio saltando dalla finestra durante un compito in classe. Come nella serie spagnola, Pierre si trova di fronte dei ragazzi che sono l’esatto contrario della vulgata sulla generazione di smidollati inconsapevoli, dipendenti dagli smartphone e imbambolati psicologicamente. Già avanti di quasi un anno sul programma, incalzano il nuovo professore perché prosegua normalmente con le lezioni, senza occuparsi paternalisticamente della loro reazione emotiva. Mentre Viruca è carismatica, Pierre è riflessivo e intransigente.

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L’ultima ora sviluppa su molti piani la questione generazionale e quella educativa, ma pone interrogativi importanti rispetto alle sfide pedagogiche: cosa vuol dire insegnare in un contesto in cui l’ideologia della scuola sembra annullare qualunque istanza di contestazione davanti ai modelli sociali dominanti? A cosa serve la scuola? A riprodurre benissimo il mondo di fuori? Può esistere un insegnamento che non si ponga una responsabilità politica?

Se nel Caos dopo di te e nell’Ultima ora l’insegnamento è un elemento chiave, anche se non in modo esplicito, in Rita l’innesco di ogni puntata è almeno una sfida educativa. Che fare con quel ragazzo con il disturbo da deficit di attenzione/iperattività? Come affrontare un caso di bullismo nei confronti di un professore? Come s’imposta una lezione di educazione civica? Come si aiuta un ragazzo ad affrontare un esame? Come si può affidare una lezione di laboratorio ai ragazzi? Le parole coraggio, paura, ansia, turbamento, che ci sembrano astrattamente legate alle difficoltà della crescita, prendono forma rispetto alle domande che si fanno i docenti. Stanno dentro la sfida educativa, sono sciolte, articolate, comprese e affrontate. Rita in questo è un’insegnante modello: può riuscire o fallire, ma non elude nessun impegno che il suo ruolo comporta.

Un luogo cruciale che torna in tutte e tre le opere è la sala insegnanti. Viruca, Raquel, Pierre e Rita si confrontano molto – a volte aspramente – con i colleghi e i presidi non solo su questioni disciplinari o personali, ma anche sulle idee pedagogiche. In un certo senso è uno scontro tra stili educativi.

Guardare Rita, L’ultima ora e Il caos dopo di te può essere utile per chi insegna, ma aiuta anche i non addetti ai lavori a capire che quando parliamo dei problemi della scuola dovremmo focalizzarci un po’ di più su quello che succede dentro la scuola – nella relazione tra studenti, tra insegnanti, e tra studenti e insegnanti – e un po’ meno sulle questioni gestionali, sull’organizzazione o perfino sull’edilizia o sulle nuove tecnologie. Non perché queste ultime non siano importanti (anzi, vedere con l’occhio deformato professionalmente la funzionalità di certi ambienti didattici sia nelle due serie sia nel film provoca un sanissimo sentimento d’invidia), ma perché l’occasione che ci ha dato la pandemia di occuparci di una scuola in crisi non può essere sprecata.

Ragionare insieme sull’educazione, costruire in continuazione comunità educanti è il compito civile a cui spesso veniamo meno e che pensiamo di delegare alla scuola. Questo vuol dire non assumersi le proprie responsabilità. Film e serie che mettono in scena in modo convincente il mondo imperfettissimo della scuola ci dimostrano che non possiamo aspettarci soluzioni dalla scuola e che dobbiamo almeno cominciare a fare le domande giuste.

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