Qualche tempo fa mi è capitato di andare a Dallas per girare un documentario. Per una ripresa avevamo bisogno di un’inquadratura da un grande palazzo che si affaccia su Dealey Plaza e sull’ex “deposito di libri”.
La troupe con cui lavoravo era molto più giovane di me: c’erano un australiano cinese, una ragazza inglese cresciuta in Africa, un giovane ebreo di Brooklyn e altri. Alzando lo sguardo si vedeva la finestra da cui Lee Harvey Hoswald sparò a Kennedy e la croce incisa nel catrame.
Sono rimasto incuriosito dal poco interesse che dimostravano le persone con cui ero. I fatti del 22 novembre 1963 per loro non è neanche lontanamente concreto quanto il momento in cui gli aerei guidati dagli assassini suicidi hanno violato lo skyline di New York. E mi sono reso conto che non lo è nemmeno per me. Il tempo ha un suo modo di stabilire i valori.
Sarò probabilmente in minoranza, e non mi importa, ma sono lieto di scoprire che il dramma e il culto di Kennedy stanno svanendo nel nulla. Lo sforzo per tenerli in vita costa troppa fatica. È passato molto tempo da quando ho ricevuto telefonate o documenti con nuove informazioni scottanti per uno scoop sull’omicidio.
Ed è passato moltissimo tempo da quando ho sentito qualcuno sostenere con convinzione (e tanto meno con prove) che, se quel giorno il presidente si fosse salvato, non parleremmo della calamità del Vietnam come della “guerra di Kennedy”.
Quest’ultima idea, paradossalmente, è il nocciolo dell’illusione che mantiene vivo il culto di Jfk. Ma in realtà biografi e archivisti hanno provveduto all’importante lavoro di raccontare. I loro studi hanno rivelato un presidente freneticamente “su di giri” per pasticche di tutti i tipi; veloce con la pistola e pronto a rivolgersi alla mafia per la sua politica estera; disposto a rischiare la guerra nucleare per salvarsi la faccia.
Che metteva le microspie perfino nello Studio ovale e che usava la residenza ufficiale come un bordello; e forse non avremmo mai imparato il suo nome senza la maniacale determinazione di suo padre a comprargli una carriera politica.
Se la decima parte di queste cose fosse vera per George W. Bush, Howard Dean potrebbe dire di averlo smascherato. Ma purtroppo “il manto di Jfk” è ancora un indumento a cui nessun democratico serio può permettersi di rinunciare.
Se Napoleone Bonaparte fosse stato ucciso da un colpo di moschetto al suo ingresso a Mosca, ha detto una volta qualcuno, la storia lo ricorderebbe come uno dei più grandi generali mai vissuti. Sarebbe cinico e crudele dire che la fortuna e il “carisma” di Kennedy non lo hanno abbandonato neppure nella morte, e in ogni caso preferisco imputare questa opinione impietosa a chi l’ha veramente espressa – vale a dire i suoi agiografi.
Chi oggi crede davvero che Kennedy volesse rivedere il suo sconsiderato coinvolgimento nel Vietnam del Sud? Possiamo almeno convenire che il suo zelo nell’assassinare il presidente Diem – che lui stesso aveva messo al potere pagando un certo prezzo di sangue – era un indicatore alquanto contraddittorio rispetto all’intenzione di disimpegnarsi?
Un’eredità funesta
E che dire del bellicoso anticomunismo sbandierato da Kennedy quando pensava che gli convenisse? Dopo aver provato con l’assassinio e l’invasione “smentibile” di Cuba, e dopo aver contribuito a provocare la crisi dei missili – in cui giocò d’azzardo con tutti noi – accettò mansueto il ritiro dei missili americani dalla Turchia e promise che il regime di Fidel Castro sarebbe stato considerato permanente.
Lui e suo fratello non rispettarono fino in fondo i termini di questo secondo accordo, è vero, ma la conseguenza è stata che nei Caraibi gli Stati Uniti sono ormai indelebilmente associati alla mafia e che Castro è diventato a tutti gli effetti un presidente a vita. In questo senso possiamo dire che l’eredità di Jfk è ancora con noi.
Un altro lascito di quel periodo, il muro di Berlino – a cui non si oppose se non molto tempo dopo la sua costruzione – è scomparso dalla nostra vita solo venticinque anni più tardi. Interpretò nel modo peggiore la tattica del poliziotto cattivo e del poliziotto buono, concentrando i difetti di entrambi i ruoli.
Sul fronte dei diritti civili, viceversa, anche gli storici più inclini all’adulazione trovano difficile spiegare perché i fratelli Kennedy preferirono la strategia millimetrica del passo della lumaca. Ma almeno questo serve a dimostrare che conoscevano l’esistenza di una cosa chiamata prudenza o cautela.
Ogni bravo progressita di oggi sa bene che bisogna deplorare l’adulazione e la “costruzione dell’immagine”. Tutto giusto, ma qualcuno si è mai chiesto quando questo modo di fare politica è diventato dominante? Come ho detto all’inizio, sono lieto che l’incantesimo stia svanendo.
Ma vorrei che la sua scomparsa suscitasse meno rimpianti. L’interludio di Kennedy fu una fuga dalla responsabilità, e dovremmo criticarlo ed esorcizzarlo invece di vederlo morire circondato dal sentimentalismo.
*Traduzione di Gigi Cavallo.
Internazionale, numero 517, 5 dicembre 2003*
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