Qualche tempo fa mi hanno invitato a fare il guastafeste a una “Settimana per Ronald Reagan” organizzata dal Wabash college, nell’Indiana. Molti dei miei avversari sostenevano che la storia aveva dato ragione a Reagan, mandando in pezzi l’Unione Sovietica: anche qualcuno di noi di sinistra era stato contento di assistere alla fine dell’impero russo e della guerra fredda. Nulla però poteva farmi dimenticare cos’erano stati davvero gli anni di Reagan.
Ronald Reagan una volta disse che in russo non esiste un equivalente della parola “libertà” (invece c’è, è svoboda, ed è un vocabolo ben presente nella letteratura). Reagan sostenne che i missili balistici intercontinentali una volta lanciati potevano essere richiamati. Disse che voleva una difesa antimissile da Guerre stellari, ma poi si mostrava infastidito quando la gente la chiamava appunto “Guerre stellari”.
Peccato che avesse concluso il suo discorso sull’argomento con la battuta: “Che la forza sia con voi”. Reagan mise in allarme le sue controparti sovietiche affermando che Usa e Urss avrebbero unito le forze contro un’invasione di marziani. Seminò il terrore tra gli elettori parlando a ruota libera della “fine dei tempi” adombrata nella Bibbia. Nello Studio ovale disse a Yitzhak Shamir e a Simon Wiesenthal, in due diverse occasioni, di aver assistito di persona alla liberazione dei campi di sterminio nazisti.
Ma non è ancora finita. Annunciò che il Sudafrica dell’apartheid era stato “al nostro fianco in tutte le guerre che abbiamo combattuto”, quando nell’ultima guerra mondiale i dirigenti sudafricani erano stati dalla parte opposta. Permise ad Alexander Haig di autorizzare l’invasione israeliana del Libano nel 1982, lo mise alla porta quando le cose degenerarono con il disastro di Beirut, poi abbandonò di corsa il paese quando fu fatta saltare la caserma dei marines, e infine – incredibile – accusò i democratici di essere “scappati a gambe levate”.
Vendette armi pesanti ai mullah iraniani e su questo mentì ripetutamente. Poi stornò i profitti di questo traffico criminale verso il Nicaragua, dove si combatteva una guerra illegale, e anche su questo mentì senza tregua. Lasciò infine che i suoi sottoposti dicessero che era troppo ottuso per capire il nesso tra questi due crimini, entrambi punibili con l’impeachment. A quel punto passò disinvoltamente a sostenere Saddam Hussein contro Teheran.
Potrei andare avanti. Vidi Reagan da vicino una sola volta, quando gli feci una domanda che non gradì: era vero che durante una tribuna elettorale del 1980 il suo staff aveva rubato la cartellina dei documenti al presidente Carter? (Era vero). Il famoso sorrisetto cordiale si trasformò in un ictus di furia senile, e io mi ritrovai faccia a faccia con una lucertola stupida e crudele. La sua risposta fu che forse sì e forse no: ma io che ne pensavo della rivelazione alla stampa dei documenti riservati del Pentagono sulla guerra del Vietnam?
Insomma, metteva sullo stesso piano il furto di documenti presidenziali e la rivelazione al pubblico americano di informazioni fondamentali. L’uomo non era mai a corto di battute da quattro soldi né di falsità che, provocando delle risate, gli servissero a prender tempo.
Un grande poeta ha osservato che la volpe sa tante cose piccole, mentre il porcospino sa una sola cosa grande. Ronald Reagan non era né una volpe né un porcospino. Era stupido come una zucca. In qualsiasi sera della settimana avrebbe potuto ospitare a cena i grandi della terra, e invece mangiava quasi sempre da un vassoio, seduto davanti alla tv. Non aveva amici, solo compari. Dai figli non era poi tanto benvoluto. Sua moglie l’aveva conosciuta perché lei aveva bisogno di farsi cancellare da una lista nera maccartista di attori, e lui aveva il potere di farlo. A Washington gli anni passavano e io, trovando già incredibile che un uomo del genere avesse potuto essere un cattivo governatore della California in un anno difficile, non mi capacitavo di come un paese tanto forte potesse sorbirsi un presidente così fasullo e anche un po’ scemo.
Comunque sia, venne il giorno della visita di Mikhail Gorbaciov a Washington, in cui l’hotel Marriott, che ospitava le conferenze stampa del vertice, ribattezzò il suo ristorante “Glasnost Café”. Sul marciapiede, alcuni manifestanti accusavano Reagan di arrendersi ai sovietici. Io passavo il tempo con i miei amici a chiedermi se fosse vero. Molti di quei miei amici avevano un quoziente intellettivo doppio del mio, vale a dire sei volte superiore a quello dell’allora capo dell’esecutivo. Tutte persone che avrebbero fortemente desiderato vedere Jimmy Carter o Walter Mondale seduti al posto di Reagan quando l’Urss aveva gettato la spugna; che avrebbero preferito che di guardia ci fosse stato Dukakis quando Saddam Hussein aveva invaso il Kuwait.
Da allora non ho smesso di interrogarmi non solo sull’idiozia della politica americana, ma anche sul bisogno di tanti intellettuali statunitensi di provare la loro furbizia dimostrando di essere più svegli dell’ultimo idiota al potere. O comunque dell’ultimo repubblicano.
*Traduzione di Marina Astrologo.
Internazionale, numero 543, 11 giugno 2004*
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