Traduzioni, impegno e identità
Nell’estate del 2020, durante un viaggio in auto, mi è capitato di riascoltare Black Athena degli Almamegretta, un brano ispirato all’omonimo saggio dell’accademico inglese Martin Bernal. La canzone è del 1998 e interpreta le grandi civiltà come frutto del meticciato, un messaggio vicino alla band e anche forse alla percezione che l’Italia aveva di sé in quel periodo storico. La mia reazione istintiva nell’ascoltarla è stata pensare che l’Italia oggi è molto più bianca ed è molto più nera. Un brano così forse non verrebbe più scritto, anche se a differenza di quanto avviene in letteratura, la questione dell’appropriazione culturale in ambito musicale è meno viscerale, sia perché il campionamento e il remix sono tecniche costitutive considerate più “innocenti”, sia perché il rap e oggi la trap hanno saputo risemantizzare meglio quanto accade nel gioco delle identità.
Oggi in Italia la questione della razza è affrontata sia in maniera più separatista, con il recupero di un’identità militante da parte di chi ne subisce la pressione, sia in maniera più aggressiva e violenta, perché gli episodi di intolleranza verso i non bianchi sono aumentati. Come ci siamo arrivati?
Per via di una mutata sensibilità culturale per cui si tende a ribadire chi è bianco e chi è nero, e quali diritti e doveri discendono da questo, nell’aria c’è un’innegabile e diffusa nostalgia verso un periodo, magari più ingenuo, in cui il razzismo italiano non era discusso perché, proprio come si evince nell’approccio di una band come gli Almamegretta, l’Italia era un paese portuale, mediterraneo, meticcio per vocazione, storicamente spurio e mescolato, e dunque la differenziazione per razze era innaturale rispetto a un istinto quasi spontaneo verso la mescolanza. È una nostalgia comprensibile, anche perché propone un modello auspicabile. Ma l’Italia è stata anche un paese colonialista. Ed è stata, ed è, un paese a maggioranza razzista. Che ha ideologicamente puntato sulla crescente razzializzazione della società per determinare certi risultati politici. Alla luce di questo, quell’ipotesi del meticciato era più positiva o più miope?
Dichiararsi non razzisti in una società razzializzata è sufficiente?
In queste settimane il dibattito su “chi può tradurre chi” scatenato dalla pubblicazione in varie lingue straniere di The hill we climb della poeta afroamericana Amanda Gorman ha fatto emergere molte questioni intrecciate tra loro, in cui si passa dalla sacralità della letteratura alla contaminazione del mercato editoriale, dai danni e i vantaggi delle politiche identitarie, alla suscettibilità o sensibilità di una generazione woke, ossia perennemente vigile e in allerta. È stato un dibattito trasversale a vari paesi, e che in Italia si è trasformato spesso in un appello al ripristino dei valori universali, in cui la letteratura resti immune alle dinamiche identitarie, e si faccia semmai un discorso su come migliorare le condizioni delle minoranze a partire da un’istanza di classe.
Come spesso accade quando si invocano Marx, la tradizione dello stato sociale e la necessità di aggregare le forze in base alla classe sociale, tralasciando altre posizioni corollarie, le minoranze prese in esame e che si definiscono tali diventano un po’ ingombranti, e si tende a reiterare l’idea di una nazione molto distante da quella statunitense in cui il tema della razza suscita risposte politiche, culturali e industriali fondamentalmente “estranee” al contesto italiano. Questo discorso avrebbe avuto una sua legittimità ai tempi di Black Athena degli Almamegretta, ma è difficile non individuare nelle tendenze della classe politica italiana degli ultimi venticinque anni dominata in maniera più o meno continua dal neoliberismo e dal logoramento delle reti sociali, oltre che da crescenti politiche di razzializzazione, delle somiglianze con una società americana corporativa e privatizzata, che vede il colore ovunque al fine di perseguitarlo o di esaltarlo, spesso in maniera maligna e strumentale (si veda l’intervista alla traduttrice Martina Testa che prende in esame il marketing identitario nell’industria editoriale statunitense e le sue differenze specifiche rispetto al contesto italiano).
Qualcosa dai tempi in cui c’era la fiducia nel meticciato italiano a Italian black lives matter è cambiato. Sostenere che il problema sia proprio nel costrutto bianco/nero (o bianco/rom, bianco/cinese) in quanto pensiero che ci riporta indietro di secoli e retaggio importato da paesi schiavisti o imperialisti, può significare puntare lo sguardo verso il futuro, stare sintonizzati con l’ideale e la purezza di un costrutto universale, ma la realtà propone altri scenari, fatti di esclusioni sistematiche, sbarramenti, pestaggi, sottrazione di diritti e a volte la morte, anche in Italia. Dichiararsi non razzisti in una società razzializzata che vive sulla linea del colore è sufficiente?
L’ideologia dell’esclusione
Volendo semplificare il discorso, è vero che vent’anni fa la sinistra italiana era diffusamente non razzista, ma oggi la questione è diventata capire come essere antirazzisti, e in che modo la color blindness, ovvero l’idea secondo cui non conta il colore e lo si deve ignorare al fine del riconoscimento delle opportunità e dei diritti, può diventare uno strumento che facilita l’ideologia dell’esclusione, lasciandola agire indisturbata.
Nato nel contesto della sinistra accademica statunitense, il dibattito sulla color blindness verte proprio su questo passaggio, dal non essere razzista all’essere antirazzista, e può avere una risonanza utile per chiederci se non sia necessario vedere le pratiche che costruiscono il colore al fine di stanarle e smantellarle invece di delegittimarle, in quanto problematiche e anche fuorvianti, perché riproducono un’idea di “nerezza” immaginaria, fatta da latitudini e geografie molto diverse tra loro, da soggetti inurbati e rurali, da chi ha sperimentato il colonialismo e chi non ha niente a che spartire con la polizia statunitense. Ma se c’è una classe dominante che aggrega soggetti diversi in base al pretesto della razza, allora la razza va considerata per stroncare questo pretesto. Dire che si tratta di un costrutto filosoficamente nullo oltre che impreciso, non farà molto per smontarlo nella pratica.
Un corollario della questione razziale che si sente spesso nel mondo della cultura è questo: ogni volta che si parla di maggiore inclusività nella filiera editoriale e di migliorare la rappresentanza rispetto al tessuto sociale (di assegnare ruoli nelle stanze dei bottoni, ammesso che sia desiderabile, oggi non se ne parla ancora), emerge la domanda “dove li andiamo a prendere?”. È un ritornello diffuso, spesso intessuto di goffaggine oltre che di poco studio e poca curiosità.
Si dice che se le conversazioni attorno alla letteratura sono tendenzialmente bianche e gli altri non ci sono è perché letteralmente non ci sono. A fronte di intere generazioni scolarizzate e dunque con varie inclinazioni a inserirsi anche nell’editoria e nell’industria culturale, di italiani che magari hanno genitori o nonni che parlano un’altra lingua, o che discendono da ondate migratorie ormai quarantennali e storicizzate, questa posizione da parte di un apparato culturale molto difeso, notoriamente caratterizzato da soglie di accesso altissime, può essere davvero una posizione in buona fede?
E se davvero non ci sono – circostanza confutata da numerosi dipartimenti universitari, piattaforme social di attivisti e militanti, da case editrici che fanno scouting come People, Effeqù e 66th and 2nd, da romanzi e antologie che purtroppo patiscono sempre la condizione di essere “nuove” e di rottura anche quando si confrontano appunto con una migrazione vecchia e stabilizzata – è legittimo chiedersi come mai una società con una tradizione meticcia così forte non abbia prodotto molte scrittrici e scrittori, o traduttori e traduttrici, o attori e attrici che non riflettano solo la maggioranza.
Una risposta abituale è che bisogna conoscere le famiglie di appartenenza, e in questo si sente un’eco della questione meridionale e dell’abbandono scolastico per cui in certi contesti i figli devono produrre reddito e non possono dedicarsi all’arte. Ma lo stato e le istituzioni culturali hanno un ruolo nel fornire queste possibilità, spezzando anche i nodi di una trasmissione familiare ed ereditaria per i figli e le figlie che non vogliono adeguarsi a certi standard.
Questo tema della possibilità, molto sfruttato da Hollywood, è un problema solo statunitense? O è anche un problema italiano? Prima di essere una favola morale buona per la Nike e di degenerare nella parabola della “persona che ce l’ha fatta”, il diritto a essere qualcuno a partire da chi si vuole essere, non è un diritto universale?
Cittadinanza e segregazione
Negli Stati Uniti il tema della segregazione razziale si compie nel riconoscimento di una cittadinanza. Senza una cittadinanza è molto difficile irrompere pienamente sulla scena pubblica e culturale, ed è per questo che oggi il sentimento che accompagnava l’idea di un’Italia meticcia e non razzista appare un po’ passivo, soprattutto nel silenzio attorno allo ius soli, questione cruciale e matura già allora. E così continua la saga di generazioni che non sono viste, non sono aiutate a crescere e non sono incluse nel discorso, che di fatto non esistono, e questo non vale solo per minoranze più esposte come quelle afrodiscendenti, ma anche per quelle definite subalterne in base alla classe sociale o alle origini balcaniche, cinesi o indiane, la cui fragilità è ancora più grande; se Asian lives matter non funziona molto negli Stati Uniti, figuriamoci in Italia. E se poi ad accorgersi di loro arrivano prima le multinazionali che vogliono migliorare la propria reputazione sociale, è difficile pensare che l’establishment possa ritenersi del tutto indenne dalla responsabilità di aver costruito certi vuoti nella macchina che riproduce il pensiero culturale (basta pensare a quanto sono omogenee le redazioni dei principali quotidiani).
Ridurre tutto a un discorso di importazione degli schemi industriali statunitensi opacizza tendenze degli apparati dominanti che invece sono simili, e perpetua l’idea di uno stato sociale italiano più forte ed equo di quanto non sia in realtà.
Per ulteriori riferimenti al riguardo, una bella lettura è L’unica persona nera nella stanza (66th and 2nd, 2021) di Nadeesha Uyangoda, oltre all’ascolto del podcast Sulla razza che cura insieme a Maria Mancuso e Nathasha Fernando, in cui ci si occupa di lessico e anche di traduzione, contribuendo a localizzare il dibattito sulle politiche identitarie in modo che abbia senso qui.
Il fardello dell’identità
Il modo in cui siamo diventati progressivamente più bianchi e più neri negli ultimi vent’anni, o più “uguali” e più “altri”, mi è stato evidente il giorno in cui un mio amico non è stato assunto per una docenza in scrittura creativa in un’università inglese. Molto deluso, quando me lo ha raccontato si è liberato del suo fardello: non era stato preso perché è bianco. Non ho avuto modo di chiedergli chi era stato assunto perché mi ha anticipata: una donna, nera, probabilmente lesbica. Ogni volta che incappo in questo tipo di discorsi, sempre più frequenti a dire il vero, mi sembra di assistere a una brutta reiterazione delle barzellette che andavano di moda quando ero bambina, quando non si sapeva molto di politiche identitarie, eppure si scherzava sulla sofferenza di un nero ebreo comunista omosessuale negli anni cinquanta negli Stati Uniti, indicandolo come il peggior concentrato di minoranze possibili, destinato a una sofferenza perenne, ma sempre con un sottofondo velatamente ironico.
Quel sottotesto ironico, quel tono sardonico, persiste ancora oggi quando si discutono le varie etichette in cui le minoranze si riconoscono, spesso dopo averle subite per anni senza la possibilità di scegliere, e lo si sente anche nella voce di molti insospettabili a sinistra. “Ci stava una trans, nera, disabile, working class… una palestinese pansessuale ally” e via via ad aggiungere qualifiche per ironizzare sull’impossibilità ormai di chiamare qualcuno soltanto per nome; come se la maggioranza si esprimesse in singole unità ontologiche, e le minoranze fossero affette da una creatività prolissa per cui girare con un biglietto da visita che elenca tutti le parti di sé è indispensabile, altrimenti non si esiste. È vero che c’è una sovrapproduzione di etichette identitarie molto specifiche e che ragionano a partire da tasselli microscopici, ma se accettiamo la differenziazione in base a etnia, genere, orientamento sessuale, come si fa a stabilire un confine filosofico su quanto possono essere specifiche le differenze nel racconto che qualcuno fa di sé?
È una tendenza dell’editoria quella di affidarsi a focus group per trovare dei lettori-consumatori
Se il sistema ha considerato alcuni soggetti politici come unici e altri li ha scissi in parti, spezzandoli e organizzandoli nel loro essere donne o queer o trans o disabili o working class o asiatici e qualsiasi altra qualifica di “differenza” (per non dire di “devianza”) rispetto allo standard, era prevedibile che prima o poi emergesse il tentativo di riappropriarsi di queste parti, facendole agire in maniera politica e strumentale. Se cresci in un sistema che ti costringe a pensarti in multipli, e ti nega la libertà di essere solo “te stesso” come avviene appunto nelle migliori pubblicità degli articoli sportivi, è plausibile che un giorno tu voglia radunarti e raccoglierti. E il tentativo di ricomposizione di sé non è scontato né univoco.
In ottica liberal, questo processo di ricomposizione viene definito come una transazione commerciale, qualcosa che io acquisto nel supermercato delle identità al fine di promuovere meglio me stesso e aumentare il mio capitale reputazionale. In ottica intersezionale, invece, viene definito come il tentativo di stabilire un legame di consapevolezza, spesso affettivo, con le proprie appartenenze per migliorare le condizioni di vita personali e degli altri, in cerchi concentrici di solidarietà. Come sempre, la letteratura risolve molti di questi problemi, e per approfondire è indispensabile leggere Ragazza, donna, altro (Sur 2020) di Bernardine Evaristo, che racconta come la diversity – intesa come sfruttamento commerciale delle differenze in chiave neoliberista – possa essere molto diffusa anche tra soggetti che si considerano “altri”.
Quando il mio amico si è lamentato delle ragioni della sua mancata assunzione, non l’ho trovato ridicolo, come in fondo non trovo ridicola nessuna persona che percepisce acutamente di essere marginalizzata, anche se il contesto non conferma questa esclusione. Ho provato invece a individuare il processo che lo ha portato a sentirsi maschio e bianco per la prima volta nella sua vita. E mi sono chiesta se la persona assunta abbia percepito di essere donna, nera e probabilmente lesbica in quel frangente, ma presumo di no. Presumo che pensasse di essere stata assunta per la sua competenza, o che almeno lo sperasse. C’è un ventaglio di possibilità nella storia di questo processo di selezione, ma questo vale per gran parte delle assunzioni e delle circostanze in cui qualcuno viene escluso a discapito di un altro.
La costruzione della competenza
La questione della competenza è affascinante quanto ambigua, ed è centrale nel dibattito sulla traduzione di Amanda Gorman. La richiesta di scrittori e artisti che hanno sollevato il caso sulla scia della giornalista di moda e attivista Janice Deul, contestando l’assegnazione del testo a Marieke Lucas Rijneveld nasceva soprattutto sulla base della sua mancata familiarità con la traduzione e la scarsa conoscenza dell’inglese per ammissione della stessa autrice, a discapito di una comunità affermata di poeti nei Paesi Bassi, che oltre a essere afrodiscendente, scrive in inglese e lavora con lo spoken word e dunque ha proprio maggiori competenze tecniche, più che identitarie. La scelta di Marieke Lucas Rijneveld non rispondeva al criterio di competenza ma di popolarità, essendo la recente vincitrice del Man booker prize international, e in base a un’idea di vicinanza con Gorman, per generazione e sensibilità.
Non è uno scandalo: la scelta dell’editore è stata molto cinica e un po’ miope, e il suo cambiare idea dopo le polemiche lo è stato altrettanto, perché risponde a operazioni di ingegneria per cui i lettori sono in realtà gruppi di consenso. È una tendenza crescente dell’industria editoriale quella di affidarsi a focus group per trovare dei lettori-consumatori quasi a colpo sicuro, ma questo c’entra poco con la razza e chi deve tradurre chi. In un certo senso, somiglia più alla logica del mettere il nome di chi traduce in copertina: un segno per riconoscere il giusto ruolo di chi fa transitare il testo in un’altra lingua, il cosiddetto autore invisibile, ma dettata spesso dall’idea che la popolarità di chi traduce in patria possa riscattare l’opacità di una voce straniera. Quella del nome del traduttore in copertina può essere letta come una scelta bella, etica. O come una scelta di mercato. Nessuna delle due proposizioni vive in maniera assoluta.
La competenza del traduttore è il risultato di un processo di maturazione di chi traduce, ma di solito le assegnazioni avvengono per risonanza e affinità tra due voci, all’interno di un parco di traduttori competenti. Nella costruzione della competenza non entrano in gioco solo lo studio, il merito, le doti tecniche, la passione con cui si pratica il mestiere e la capacità di transitare tra due mondi, ma contano anche dati molto più grezzi come l’accesso alla professione che all’inizio comporta innumerevoli sacrifici e la possibilità di una rendita alternativa, il costo del lavoro, l’affinità e dunque la capacità di saper giostrare varie parti di sé. Spesso nel dibattito che ricorre sulla traduzione si fa largo l’idea che il traduttore sparisca davanti al testo, tutta la sua persona si volatilizza e resta una macchina senza storia né memoria né percezione di sé, per abitare completamente il testo nuovo.
Se fosse così, vivremmo davvero nel tempo dei cyborg e del trionfo dell’intelligenza artificiale. Ma se contestiamo che siano i robot a tradurre, se contestiamo l’applicazione dell’intelligenza artificiale alla traduzione perché ci serve la componente umana, da cosa pensiamo sia fatto questa umanità? Perché non possono essere prese in considerazione le varie parti che formano una persona, e che non coincidono necessariamente e unilateralmente con il genere e la razza o la coscienza di classe, ma possono essere anche influenzate da questi aspetti? Se pensiamo che l’essere umano che traduce sia definito dalla sua capacità di farsi altro, allora chiunque dovrebbe avere diritto di farsi altro.
“Chiunque può tradurre chiunque” è un principio bellissimo. Ma è anche un principio fondamentalmente inesatto nella pratica dell’editoria, che si basa su scelte. Oggi in Italia razza e genere, e altre forme identitarie, non sono mai fattori dirimenti nelle scelte editoriali, ma fanno parte del discorso attorno alla costruzione della competenza e della risonanza. Chiedersi come sono costruite queste risonanze è un dovere culturale. Chiunque di noi si domanda: dove inizio e dove finisco come persona, e che possibilità ho?
Definirsi e dimenticarsi
Per tornare alla questione dell’ironia sulle etichette identitarie, uno dei problemi evidenti è che il concetto dell’intersezionalità utilizzato dall’esperta di diritti civili, attivista e femminista statunitense Kimberlé Crenshaw in ambito giuridico è stato tradotto come accumulazione delle identità e non come intersezione delle identità. Come se si sommassero le definizioni al pari di adesivi così da ottenere un punteggio – poc, genderqueer, asexual, eccetera – in quelle che negli Stati Uniti sono definite “Olimpiadi delle oppressioni” e una gara a chi sta peggio, senza ragionare sul modo in cui ognuna di queste intersezioni ha concorso a formare la propria esperienza del mondo, e spesso dell’ingiustizia subita, creando un’oggettiva difficoltà a isolare una parte rispetto a un’altra.
Il mio amico non è stato assunto perché maschio bianco eterosessuale o perché era meno competente? Come lo si stabilisce, in un ambito culturale segnato da discorsi sempre più equivoci sull’identità? L’unico dato reale è che fino a quel giorno non si è pensato né come maschio né come bianco, a fronte di persone che si pensano in parti e in etichette fin dalla nascita, perché sono nominate in maniera costante. L’etichetta identitaria, ancora prima di essere scelta ed eventualmente “comprata”, spesso viene ereditata, subita.
Il rovescio del diritto a definirsi è il diritto a dimenticarsi: è una potere molto forte, quello che ha avuto il mio amico, di trascendere sé stesso finché ha potuto, e di pensarsi come naturale e non come costruito, neutralizzabile e non commentabile. La sua frustrazione e nostalgia per un mondo in cui non era né maschio né bianco è legittima: ma questo oblio della propria identità o vale per tutti, o non è. O siamo tutti liberi davanti a un testo di essere fuori da noi, di dire “io è un altro”, o questa cosa non è. Ed è un diritto molto reclamato, molto richiesto dalle minoranze: a volte pare di sentire solo questo strepito dell’io che vuole esserci e farsi consumare, e non ci sintonizziamo con la richiesta di un io che invoca il diritto a dimenticarsi. Probabilmente perché questa richiesta fa meno rumore.
La storia della traduzione ha vissuto i suoi momenti di rottura, c’è stato un tempo in cui non c’erano poi così tante donne a tradurre. Ma a furia di lottare per la parità in tutti i campi, la rivendicazione alla fine è stata assorbita e legittimata dal sistema. Il punto è che tolleriamo il discorso sull’allargamento della filiera editoriale più su una base di genere che razziale, perché appena si parla di razza scatta il panico morale, come se fosse una forza che uccide e stronca qualsiasi idea di universalità e venga meno il principio che siamo tutti uguali.
Perché devo negare che varie parti di me concorrono nel definire quale sarà il risultato di una traduzione?
“Siamo tutti uguali”: davanti a chi, e come? I principi sono belli, ma se non sono integrati dalla realtà, sono fiabe che ci raccontiamo per riprodurci all’infinito così come siamo, e forse viviamo in un momento storico di crescente disuguaglianza in cui la realtà ci impone di avere un approccio meno sacro e più materiale.
I testi fanno delle domande, chi traduce risponde. Nella mia carriera di traduttrice ho all’attivo traduzioni filologiche nate e sviluppate sulla base di una distanza tra me e l’autore, traduzioni empatiche nate per vicinanza, traduzioni anche antipatiche in cui alla fine non contava niente.
Non saprei dire quante traduzioni mi siano state assegnate sulla base della competenza, ma so che quando mi è stato chiesto di farne alcune per “sensibilità femminile” non ho alzato la mano dicendo che non volevo essere ridotta al mio genere a un vettore di identità strumentalizzabili da parte del mercato delle identità. Non ricordo di averlo detto. Ho accettato, perché una parte di me sapeva che in quel contesto specifico, per quel testo preciso, avere quella sensibilità aiutava. Non importa che per tradurre Charles Yu che parla dell’esperienza di essere un maschio asiatico non meglio identificato negli Stati Uniti io sia bianca, non sento che questo mi ostacola nella comprensione del testo. Ma se l’editore avesse scelto un traduttore competente italiano di origini cinesi, coetaneo dell’autore, o in base ad altre affinità anche di matrice identitaria, io non avrei sentito lo scandalo e ovviamente avrebbe tradotto alcune parti con maggiore o minore enfasi o compiendo scelte lessicali diverse delle mie, che avrebbero creato un testo diverso. Al netto della mia maggiore o minore bravura, non posso negare a priori che quell’altro non sarebbe stato un buon testo.
Così come penso che tradurre Brevemente risplendiamo sulla terra (La nave di Teseo 2019) di Ocean Vuong abbia richiesto competenze linguistiche da parte mia, ma anche competenze di vita, maturate sulla scia di un vissuto parallelo, e che il risultato sia stato rafforzato da questo vissuto. Perché devo negare che queste varie parti di me concorrono nel definire quale sarà il risultato di una traduzione? Penso, come molte colleghe e colleghi, di saper tenere insieme competenza e appartenenza, in un sistema dalle numerose variabili di cui cerco di essere sempre più consapevole. Tradurre questi libri ha significato essere umana, essere me, e anche dimenticarmi di me. È un bellissimo privilegio. Vorrei potesse goderne chiunque voglia dedicarsi alla traduzione.
L’industria della prima persona
L’aggravante del discorso sulle identità è che esaltandone i pericoli e temendo l’influenza nefasta del politicamente corretto nella letteratura, nel cinema e nelle arti, ci dimentichiamo di appartenere a un sistema culturale che vuole tenere l’identità di chi scrive fuori dalla ricezione e dall’importanza di un’opera, invocando la sacralità del talento, ma la tira poi in ballo quando si tratta di fare dei panel e delle conversazioni attorno ai libri, in cui spesso si chiede l’obolo della rappresentanza.
Discutiamo di black italians (accade spesso di trovare questa sigla in inglese, già indice di un desiderio inconscio di rendere le cose più distanti, seducenti e appetibili) e invitiamo i neri, parliamo di queerness e invitiamo gay e lesbiche a fare da testimoni, parliamo di questioni genere e non vogliamo i maschi: la media delle proposte delle istituzioni culturali è questa.
Tendiamo a riprodurre il discorso attorno alla letteratura su base identitaria, rivendicando l’assoluta purezza della letteratura, in una vera e propria dissonanza cognitiva. Strutturare i dibattiti pubblici così non è neanche tokenismo, ovvero dare il gettone della rappresentanza o agire in base alle quote rosa: risponde in qualche modo all’idea più insidiosa, ubiqua e sottile che per parlare d’altro bisogna prima passare dal parlare di sé.
Io stessa tendo a riprodurre stereotipi su base identitaria: di recente, in maniera quasi inconscia, ho escluso scrittori e critici come probabili recensori di un testo da me tradotto, di una critica femminista ma soprattutto grande scrittrice, e ci ho messo un po’ a capire che ovviamente era una scelta limitata e illogica. Sono consapevole della pressione culturale e degli automatismi a cui sono esposta, ma essere vigile significa proprio questo: considerare tutti i modi in cui un’ideologia può ingannarmi, anche se mi riconosco nella maggior parte delle sue istanze, e impedire che la pigrizia dei suoi meccanismi possa ridurmi a un essere non pensante.
In forme estreme o diluite, lo stato sociale è a pezzi un po’ ovunque
La pressione e il condizionamento, tuttavia, sono fortissimi, e non vengono tanto dalla generazione woke e dall’idea di correttezza politica, quanto da un formato narrativo, da una modalità del racconto che ha anticipato il boom delle politiche identitarie e dei meccanismi di identificazione tra chi legge e chi scrive. Si tratta dell’industria della prima persona nella narrativa contemporanea, con il trionfo indiscusso dell’autofiction, del memoir, del racconto di sé anche se sempre più ibrido, del personal essay trasversale e che diventa il formato privilegiato con cui si fa anche cronaca e giornalismo. Non è una questione solo statunitense: l’aneddoto personale, lo spiegare il mondo a partire da sé, ci infestano in libreria e sui quotidiani formandoci e deformandoci le coscienze da tempo ormai immemore. Chiedere alle minoranze di non autorappresentarsi e di non rivendicare troppe posizioni sulla base dell’identità, quando tutta la letteratura circostante lo fa, è come minimo dubbio. Ma questo non riguarda solo le minoranze, coinvolge spesso anche gli esordienti e chiunque oggi voglia trovare uno spazio, proprio per quel discorso di legittimazione culturale che passa dal sé e in cui i social network hanno avuto un ruolo dominante.
Se nel 2011 la piattaforma forse più usata in Italia, ovvero Facebook, è passata da un romanzesca terza persona (”Claudia pensa che…”) al diario in prima persona (”Io penso che… Oggi ho fatto questo…”), non è sconvolgente rendersi conto che si sia formata una generazione che usa l’identità per smuovere le acque, ottenere risorse o nel caso peggiore vendersi al miglior offerente.
I militanti e le militanti molto attivi su questi temi in rete sono narcisisti? I social network sono narcisisti e incoraggiano il virtue signaling, la segnalazione delle proprie buone virtù? Perché diamo a un’intera categoria di persone la responsabilità di un declino, intergenerazionale e metastatico? Dopo vent’anni a scrivere “io” ovunque, sui social network e nei romanzi, dopo il ventennio del self-made man Berlusconi con il suo modello imprenditoriale che ha elevato la televendita a politica, che una generazione dica io e usi l’identità per fare politica non può essere davvero uno choc culturale. Molta della sua virulenza e della sua aggressività nasce anche dalla stanchezza.
Con la crisi del neoiberismo e con gli scontri razziali dopo Ferguson negli Stati Uniti e dopo Grenfell in Gran Bretagna, e la ripresa del dibattito su come l’austerity penalizzi su base razziale e di classe, in Italia probabilmente per via del continuum di emarginazione dal lavoro e crescenti episodi di intolleranza, si è creata quest’idea di una disparità a cui reagire. E quest’idea era e resta vera: la disparità è reale. In forme estreme o diluite, lo stato sociale è a pezzi un po’ ovunque.
Eppure della wokeness così forte negli Stati Uniti e che si accusa di importare in maniera acritica, in Italia pare vivere soprattutto la forma e meno la sostanza, umiliando anche chi invece fa politica intersezionale e anticapitalista in maniera concreta. L’Italia che si fa America in questa ossessione per il consumo, e che non pensa all’America in quegli aspetti di attivismo civico: e possiamo pure continuare a credere che quella statunitense sia una società di consumatori e quella italiana no, ma i commenti dei consumatori sotto alle notizie sullo sciopero italiano di Amazon di qualche giorno fa attestano il contrario.
Questa generazione woke (uso generazione per comodità descrittiva, anche se è un fenomeno più largo), così scrutinata, così sensibile alle seduzioni del capitalismo camuffato, così irritabile e così sovraeccitata nelle descrizioni sempre più diffuse che se ne fanno, appare anche come una generazione genuinamente più interessata alla politica, rispetto a quella che l’ha preceduta.
Anche se fosse un’operazione cosmetica, e di fatto non lo è in maniera così totalizzante perché molte pratiche per disinnescare il capitalismo nascono al suo interno, sicuramente ha riportato nel discorso le istanze del femminismo, della lotta all’omofobia, del sostegno alla causa ambientale, dell’antirazzismo. Ridurre tutti questi fenomeni al divismo e all’ingenuità rispetto al marketing identitario è un po’ triste, rischia di avvilire le forze che ci provano davvero e snatura il concetto originario di wokeness nato tra le culture subalterne afroamericane negli anni quaranta come strategia di resistenza e di invito a vigilare su sé stessi e gli altri; come dice Bernardine Evaristo può diventare una parola abusata e vuota come femminismo, privandosi dei suoi elementi radicali.
La sinistra e l’establishment culturale hanno sempre incoraggiato le nuove generazioni all’impegno, provando disprezzo e miopia per chi non lo aveva, e infatti sia la generazione x sia soprattutto i millenial hanno patito l’accusa di essersi sacrificati a un ethos passivo come quello associato alla cultura hipster e alla disaffezione dell’ironia postmoderna a cui oggi si guarda persino con nostalgia perché meno rumorosa e spensierata, come se fossero gli eredi degli edonisti degli anni ottanta. Ora che un certo impegno esiste, è spesso analizzato alla luce di come viene assorbito e cooptato dal sistema, un aspetto indubbiamente vero: ma esiste la wokeness come performance e la wokeness come pratica. Le forme sono contigue ma esprimono desideri diversi e raccontano storie diverse: la prima non ha il diritto di occultare completamente la seconda e spetta anche a noi costruire degli argini rispetto a questo. L’obiettivo della wokeness come pratica e non come performance è passare dalla rappresentanza delle varie minoranze alla presenza delle varie minoranze: l’infrastruttura del sistema non cambia con operazioni di cosmesi e di buona coscienza, ma solo allargando la platea di chi disegna le regole, auspicando che queste presenze siano portatrici di idee di giustizia sociale.
Quella woke è sicuramente una generazione che ha maggiori problemi con il conflitto, e che rischia di sanificare il discorso e di infantilizzare la relazione tra i soggetti: ma già sul versante #MeToo e sul tema del consenso sta producendo esiti narrativi interessanti, da I may destroy you di Michaela Coal a Tomorrow sex will be good again di Kathterine Angel, che ripristina una dimensione di appropriazione attiva del desiderio. Ma la sanificazione del conflitto, la bonifica delle posizioni contrarie alle proprie, è solo un picco della storia: non copre tutta l’ampiezza di una parola, né di una generazione, né di un sentimento.
In Italia spesso si dice che la Francia è riuscita a difendersi meglio dal puritanesimo statunitense e da quest’idea di correttezza politica. Ma l’Italia è anche il paese in cui il libro Il consenso (La nave di Teseo 2021) di Vanessa Springora, che parla di pedofilia e della sua relazione con lo scrittore Gabriel Matzneff quando era ragazzina in un sistema di complicità e di legittimazione culturale, è passato pressoché sotto silenzio, a differenza che in Francia e in altri paesi. L’Italia non è una nazione puritana inferocita con il patriarcato e monopolizzata dal #MeToo come si pensa, altrimenti è ragionevole pensare che mezza editoria sarebbe già saltata all’aria. Sempre per questo presunto timore che l’Italia ceda al ricatto statunitense della correttezza, bisogna ricordare che è anche il paese in cui Woody Allen, Bret Easton Ellis con Bianco e Louis CK hanno retto bene (dopo le polemiche sul suo sessismo il comico ha fatto spettacoli praticamente solo in Italia e in Francia appunto).
Ora non si vuole infilare questi autori in un calderone di nefandezze, ma ribadire che la società italiana, il mercato, la comunità che va in libreria, non stanno rispondendo ai diktat della cultura woke o alle sue oscillazioni. Non c’è un solo titolo di giornale che giustifichi quest’ossessione della correttezza. Ma è un trend in atto, con i suoi problemi e le sue storture. E pur di vedere maggiore giustizia sociale, forse possiamo anche dialogare con queste storture, perché restano preferibili all’alternativa. A maggior ragione perché in Italia questa correttezza non è un fatto, se non in alcuni circoli sempre di più ossessionati dalla forma e dall’ortodossia, che spesso non solidarizzano con chi porta avanti la lotta nella pratica e non sui social network.
Non saranno queste le apocalissi culturali
Credere che questi mutamenti siano permanenti, degenerativi, che tendano stabilmente verso la catastrofe o un nuovo inizio in base al punto di vista, è un atteggiamento che pecca sia di pessimismo sia di ottimismo: non vivremo sotto la dittatura maccartista delle minoranze che ora si sono riscoperte al potere con dinamiche peggiori di chi le ha precedute, né probabilmente vivremo in un mondo pacificato senza differenze e senza violenza in cui non esistono il razzismo, il classismo o l’omofobia.
È probabile, invece, che questa sia una fase nell’alternanza tra impegno e disimpegno nelle grandi stagioni culturali. Sono fasi utili: di solito sono una specie di risveglio, per quanto momentaneo, che produce un’estensione dei diritti civili e sociali.
Il timore diffuso è quello di fare una lotta giusta con i mezzi sbagliati, ma il privilegio della lotta “fatta bene” non può appartenere solo a un sistema culturale in base a quello che sa già, e non a quello che potrebbe scoprire. Le questioni di metodo distraggono da una realtà fatta da trappole burocratiche che negano la cittadinanza, dal covid-19 che uccide diversamente in base alla linea del reddito e della razza, e persino del genere in alcuni contesti, senza che sia possibile stabilire dove comincia davvero una cosa e dove finisce l’altra, così come è un po’ complicato dire a qualcuno “non sei oppresso perché sei nero ma perché sei povero”, se poi invece sei un calciatore miliardario e fischiato fuori e dentro gli stadi e con il dovere di essere sempre eccezionale proprio per non essere visto per il colore della tua pelle.
Si può stare a sinistra decidendo di arrivare a diritti universali tramite storie particolari, o utilizzare l’idea di universale per arrivare a quegli stessi diritti. La conversazione tra le parti è questa, ed è una conversazione legittima e sana, a patto che non continui a distrarre perennemente dagli obiettivi.
Forse la strategia più funzionale in questo momento è anche la più banale: stare nel conflitto con i vari pezzi di sé, alzandone il volume o abbassandolo in base alla questione in merito, creando alleanze di volta in volta strategiche. Ci saranno battaglie per lo ius soli, per il reddito universale, che sono legate a principi universali, ma sarà molto difficile creare alleanze senza passare dalle storie di chi si impegna per questi diritti e dalle comunità che hanno costruito.
Karl Marx non è uscito con le ossa rotte da Donne, razza e classe (Alegre 2018) di Angela Davis, né da Marx nei margini: dal marxismo nero al femminismo postcoloniale (Alegre 2020) di Miguel Mellino e Andre Ruben Pomella: ne è uscito integrato, complicato, contestualizzato, proprio come si fa in una buona traduzione all’interno della storia che si evolve.
C’è un dibattito in corso tra integralisti dell’identità e nemici dell’identità, tra paladini della sensibilità e quelli che parlano di eccessiva suscettibilità. Nei suoi vertici di assolutismo è un dibattito poco interessante, perché vive di picchi ed episodi esasperati dai mezzi di informazione e inseriti in un sistema cannibale di paure e rappresentazioni. È stata per esempio pessima la scelta della stampa straniera e italiana di non riportare le dichiarazioni del traduttore catalano Víctor Obiols. Dopo essere stato scartato per lavorare al testo di Gorman, Obiols ha detto che avrebbe dovuto cercare del bitume per ricoprirsi la faccia, dimostrando un’effettiva incompetenza culturale. La macchina innesca e disinnesca a piacere, così come è pessima la scelta di far apparire Philip Roth al centro di un progetto di defenestrazione delle femministe in quanto misogino, istanza quanto mai risibile dato che la misoginia è un fatto letterario, costitutivo e acquisito della sua opera. Semmai si può preferire di non leggerlo, ma che Philip Roth sparisca dagli scaffali delle librerie italiane è fantascienza e nessuno che ami la letteratura lo desidererebbe.
Se solo in questa negoziazione sugli strumenti con cui cambiare le cose concedessimo il beneficio del dubbio e dell’errore che abbiamo concesso a tutte le nostre rivoluzioni culturali del passato, forse saremmo meno spaventati. Alla fine di tutte queste vicende, avremo ancora una storia, una politica, una letteratura e una lingua, ma avremo molti più soggetti a scriverla.